La Stampa, 9 gennaio 2019
La pittura fascista
Questa è la storia di una manifestazione artistica dimenticata e condannata all’oblio per molti decenni. Il Premio Cremona, creatura del ras fascista Roberto Farinacci, conobbe solo tre edizioni, dal 1939 al 1941, per poi venir travolto dagli eventi bellici. Subito etichettato come un tentativo maldestro di imitare l’arte nazista, non se ne parlò più, se non per paragonarlo negativamente all’illuminato Premio Bergamo patrocinato da Giuseppe Bottai, che lanciò talenti come Renato Guttuso.
Un’interessante mostra, «Il regime dell’arte» (curata da Vittorio Sgarbi e Rodolfo Bona, al Museo Civico Ala Ponzone di Cremona, fino al 3 marzo), riporta alla luce quelle opere, alcune sorprendentemente affascinanti altre smaccatamente propagandistiche, e riapre l’eterno dibattito sull’esistenza dell’arte fascista durante il ventennio. Il taglio dell’esposizione non è ovviamente apologetico: a idearla sono stati il sindaco della città in quota Pd, Gianluca Galimberti, e l’esponente dell’Anpi, nonché critico d’arte e saggista Rodolfo Bona. L’intenzione è quella di ricreare il clima di allora, con tanto di Radio Balilla gracchianti che declamano proclami di propaganda, e ridare spazio a un’iconografia volutamente celebrativa che nelle intenzioni intendeva riassumere lo spirito di un’epoca controversa.
Dall’allestimento elegante, negli ampi spazi dell’antico palazzo Affaitati che ospita il Museo Civico, emergono grandi tele che raccontano un’Italia contadina, semplice, per molti aspetti arcaica, che non esiste più. Sono quadri che sembrano guardare al realismo socialista, ma in camicia nera, e che spesso abbandonano la retorica per approdare a una descrizione cruda della dura realtà dell’epoca. Come afferma Galimberti questo progetto rientra nella «riscoperta della nostra storia, anche quella più terribile e difficile».
Il Premio Cremona ruota intorno alla figura di un gerarca, Roberto Farinacci, dalle molte sfaccettature, dai più bollato come un provinciale estremista, servo dei tedeschi e antisemita. Sindacalista socialista, poi massone, infine squadrista, il suo motto era «andare verso il popolo». Il quotidiano da lui fondato a Cremona, Il Regime Fascista, ebbe ampia circolazione nazionale e contò sulla collaborazione di firme prestigiose, anche a livello internazionale, come Julius Evola e René Guenon. Pur facendo parte degli organi più alti del regime, come il Gran Consiglio, Farinacci non lesinò critiche a Mussolini, tanto da votare nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 una mozione per spodestare il Duce, parallela a quella di Grandi. Il profilo basso tenuto durante la Repubblica Sociale Italiana non lo salvò tuttavia dalla fucilazione, avvenuta subito dopo la Liberazione per mano dei partigiani.
La prima edizione del Premio si tenne alla vigilia della guerra, nel 1939, ed ebbe come tema «L’ascoltazione alla radio d’un discorso del Duce». I visitatori erano chiamati ad esprimersi con un referendum sulle opere in mostra, tutte senza indicazione dell’autore. Il voto popolare si affiancava a quello di una giuria di esperti con nomi di tutto rispetto come Ugo Ojetti, Giulio Carlo Argan e Ardengo Soffici. Il titolo della seconda edizione venne scelto da Mussolini stesso: «La battaglia del grano». Ma quando s’inaugurò la mostra a Palazzo Affaitati nel maggio del 1940 ben altre battaglie si profilavano all’orizzonte. Il tema si rivelò quindi clamorosamente inattuale. La giuria ammise al concorso alcune opere spiccatamente antiretoriche, come «Il pane» dell’irrequieto 28enne Renato Santini, allievo del maestro anarco-fascista Lorenzo Viani. Vi si ritrae un’Italia rurale, misera, diseredata, con i volti spenti di contadini stanchi, deformati dal tratto primitivista dell’artista. O come il trittico del più famoso Pietro Gaudenzi, che nelle figure monumentali scelte per illustrare la raccolta e la lavorazione del «Grano» si rifà all’eleganza stilistica di Piero della Francesca. Questa è un’opera che non sfigurerebbe accanto a grandi maestri del Novecento come Sironi o Carrà.
La terza, e ultima, edizione si svolse in pieno clima bellico. Nonostante il tema prescelto, «La gioventù italiana del littorio», non poteva certo far volare le ali della fantasia dei partecipanti, anche in questa esposizione troviamo opere sorprendentemente bizzarre. Come la grande tela che rappresenta un balilla scalzo che calpesta una testa, quasi fosse un macabro trofeo, di un giovanissimo Dilvo Lotti, formatosi alla scuola strapaesana del Selvaggio di Mino Maccari. Altrettanto originale un altro balilla raffigurato da Innocente Salvini: vi si vede un bambino biondo che fa il saluto romano. Ma il colore rosso acceso del quadro fa pensare a un extraterrestre.
L’ultima edizione del premio avrebbe dovuto essere dedicata al motto «Dal sangue la nuova Europa». Ma non si terrà mai. Il regime fascista ormai scricchiolava sotto i colpi delle continue sconfitte.