La Stampa, 9 gennaio 2019
La guerra è sempre
In apertura del suo libro più bello, La tregua, Primo Levi ricorda gli insegnamenti che, lasciandosi alle spalle il campo di sterminio di Auschwitz, gli offriva l’avventuriero greco Mordo Nahum: «Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare... alle scarpe (e) alla roba da mangiare». Timidamente, Levi obietta «Ma la guerra è finita» e Nahum, saggio e stoico, taglia corto «Guerra è sempre». La massima, dettata nel 1945 sulle polverose strade d’Europa, torna prepotente d’attualità, grazie allo studioso italiano Ugo Bardi e ai suoi collaboratori, che analizzando migliaia di conflitti dal 1400 all’invasione dell’Afghanistan nel 2001, e tabulandone i dati via teoria delle reti e computer, concludono che Nahum aveva ragione, «guerra è sempre».
L’illusione degli ottimisti
La pace relativa che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha protetto le coscienze occidentali dalle stragi, fa ritenere a molti studiosi e altrettanti paciosi cittadini che la guerra sia arnese del passato, e illuministi ottimisti come Steven Pinker, dell’Università di Harvard, pensano che siamo ormai vicini alla speranza lanciata dallo scrittore Alberto Moravia al Parlamento europeo, fare della guerra un tabù, come l’antropofagia o l’incesto. Bardi, docente all’Università di Firenze, ha lavorato su dati compilati da Peter Breche della Georgia Tech University, dissolvendo le certezze di Pinker e offrendo una diversa, e più sinistra, realtà che Aaron Clauset dell’Università del Colorado aveva anticipato qualche mese fa, pur con un data set minore.
I pochi decenni di «pace» che abbiamo vissuto sono oasi nel deserto ferreo del «guerra è sempre» e, con i risultati (https://goo.gl/tRNPQX) sul sito dell’Università di Cornell, Bardi e i collaboratori Gianluca Martelloni e Francesca Di Patti provano che la guerra, tragedia innervata nella storia, cultura e società, non viene «scatenata» da incidenti improvvisi, come si diceva una volta a scuola, il ratto di Elena o delle Sabine, le rivoltellate di Gavrilo Princip contro l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Come le epidemie, la guerra è fenomeno statistico, ritorna con puntualità devastante, non accesa da episodi circostanziati, prevedibili e dunque controllabili, ma da un insieme di forze ineludibili che caricano la loro potenza nel tempo e la lasciano esplodere all’improvviso.
La scintilla conta poco
Se il docente di Harvard Graham Allison teme «il dilemma di Tucidide», Stati Uniti e Cina che si scontrano nel XXI secolo, potenze in cerca di egemonia, come Atene e Sparta nella guerra del Peloponneso, Bardi sembra suggerire che – salvo interventi diplomatici di leader carismatici di cui non si vede l’ombra, purtroppo – la Terza guerra mondiale non sia un «se», ma un «quando». Teoria delle reti, e migliaia di dati di oscure battaglie ormai dimenticate dalla Storia tabulati al computer, concludono che le sfide del futuro saranno sanguinose come non mai, per potenza degli arsenali, grande popolazione, facilità di spostamenti da un teatro all’altro di lotta. «La guerra segue le stesse leggi statistiche di altri fenomeni catastrofici», osserva Bardi, un chimico di estrazione, che nel suo popolare blog si fa ritrarre mentre scocca una freccia: «uragani, terremoti, tsunami, alluvioni e valanghe, la cui frequenza segue la legge di potenza» in distribuzione e probabilità.
Nel presentare il lavoro del team italiano, la Technology Review del Mit osserva: «Pensate agli incendi nelle foreste. La loro dimensione finale ha poco a che fare con la scintilla che li accende, ma dipende piuttosto dalla rete e dalle connessioni esistenti tra i singoli alberi, che varia nel tempo». Allo stesso modo «la dimensione della guerra a venire avrà poco a che fare con l’episodio che la innescherà, dipendendo invece dalla rete di tensioni politiche, sociali ed economiche del presente. Che sono, si sa, assai difficili da valutare, con il risultato che il parlare di “guerre limitate” va accolto sempre con scetticismo».
Considerate la crescente rivalità tra la marina americana e la flotta cinese nel Mar Cinese meridionale o il recente raid russo contro unità ucraine nel Mare d’Azov. Finora gli incidenti sono stati contenuti, ma non sempre le comunicazioni saranno facili. Se tra Mosca e Washington, all’apice della Guerra fredda nel 1963, fu installato un «telefono rosso» diretto, per evitare errori di percorso che culminassero nel lancio di missili atomici, oggi tra Casa Bianca e Cina non ci sono linee rapide di dialogo, e – per la sorpresa di molti analisti – il dialogo militare, anche in casi di emergenza, viaggia ancora su obsoleti fax.
Quando Marte si sveglia
Lo speronamento di un cacciamine, il lavoro di un hacker che infiltri un satellite, fatti di cronaca minore, potrebbero, a leggere con cura il lavoro di Bardi, portarci dritto alla tragedia, come i nostri avi caddero nella guerre mondiali, illudendosi di governarne gli esiti e restandone travolti. La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, il populismo nazionalista in Europa, il ritorno al centralismo assoluto a Pechino, l’«America First» dei comizi, l’incapacità europea di investire in difesa e cooperazione, il riarmo di tanti Paesi, perfino il Giappone pacifista, i fondamentalismi islamici e le disuguaglianze croniche, sono «la rete nella foresta» che ricrea pericoli di guerra.
Noi non la vediamo, certi – come i monarchi assoluti del 1914 o i dittatori e i leader democratici del 1939 – di controllare il Fato. Invece la banca dati del professor Bardi suona un allarme fatale: quando Marte si sveglia, un nonnulla lo scatena, perché «guerra è sempre».