Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2019
Quando l’oro cola sui piatti: dai banchetti rinascimentali alla bistecca di Ribery
Scandalo grande: un locale di Doha, gestito da Salt Bae, chef turco specializzato in carne, serve a Franck Ribery una bistecca ricoperta d’oro. Il calciatore del Bayer Monaco posta la foto e i social, guarda un po’, s’indignano. Per fortuna che i social un tempo non c’erano, altrimenti ne avrebbero avute eccome di occasioni d’indignarsi.
Intanto con Gualtiero Marchesi: molti ricorderanno il suo risotto alla milanese con la foglia d’oro, lanciato nel 1981. Ebbe un enorme successo, ma Marchesi voleva che rimanesse un pezzo unico non ha riproposto altre pietanze all’oro.Il papà di tutti gli chef italiani non ha fatto altro che riprendere, seppur inconsciamente, una tradizione ben radicata nell’Italia del Quattrocento. Se Marchesi aveva con ogni probabilità l’intenzione di stupire, i signori rinascimentali volevano invece ostentare.
Il 29 gennaio 1487, a Bologna, da Giovanni II Bentivoglio vuol celebrare da par suo il matrimonio del figlio Annibale con Lucrezia d’Este. Gli invitati sono tremila, con relative cavalcature (che bisogna rifocillare pure loro con la biada, povere creature) e le cronache riferiscono che le vivande «erano portate con grandissimo onore intorno la piazza del palazzo (…) per farne mostra al popolo, acciocché egli vedesse tanta magnificenza». Grande ammirazione suscitano i maialetti coperti di foglia d’oro e con una mela in bocca.
L’oro non è tossico, si può mangiare, è solo un problema di costi: bisogna essere molto ricchi per poterselo permettere (ma c’era anche chi grattugiava perle, altra tamarrata costosissima). Chi non aveva denaro a sufficienza per far ingurgitare oro ai propri commensali rimediava con lo zafferano: la spezia – che comunque non costava poco neanche quella – colora i cibi di giallo e il giallo è il colore dell’oro. Quindi il risotto allo zafferano di Marchesi è in qualche modo dorato due volte.
Torniamo ora al rinascimento, per la precisione al 1473 quando papa Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere, offre un banchetto in onore del re di Napoli, Ferrante I d’Aragona: arrivano in tavola pani ricoperti da foglia d’oro. Proprio il pane dorato sta all’origine del nome pandoro, oggi attribuito al dolce natalizio veronese.
Comunque il massimo dei massimi erano i grandi animali dorati. Assieme ai pani, al banchetto di papa Sisto IV arriva in tavola un orso intero, non sappiamo se fosse ricoperto d’oro come i suddetti pani, invece Mastro Martino da Como, cuoco del patriarca di Aquileia (che al tempo risiedeva a Roma), illustra nel suo “Libro de arte coquinaria”, scritto verso la metà del XV secolo, come preparare «pavoni vestiti con tutte le sue penne che cocto parà vivo e butte foco pel becco». Suggerisce inoltre che «per più magnificenza», si possa dorare con foglia d’oro il pavone prima di rivestirlo delle sue penne, in modo che dopo l’ooooh nel vedersi portare in tavola il volatile con la coda a ruota, si sollevi anche lo wow nel notare che al di sotto la pelle riluccica tutta d’oro.
Bello, no? Se volete provarci, ecco la ricetta.
Bisogna innanzi tutto ammazzare il pavone senza danneggiarlo, trapassandogli la testa con uno stiletto e poi tagliargli la gola facendo scolare il sangue. Quindi si deve tagliare la pelle dal collo alla coda e scorticarlo gentilmente in modo da non danneggiare né pelle, né penne. La pelle del collo, invece, dev’essere rovesciata in modo da formare una specie di cappuccio con all’interno la testa. Il volatile va riempito di spezie, picchiettato di chiodi di garofano e cotto allo spiedo. Le testa però dev’esser avvolta in una pezzuola bagnata, in modo che non si cucini.
Una volta cotto, il pavone va ricoperto di foglia d’oro e quindi rivestito della sua pelle e poi gli si deve infilare un congegno di ferro dalle zampe fino al collo. Il supporto rimane nascosto all’interno del corpo e l’animale in tal modo rimane ritto come se fosse vivo, quindi si deve sistemare «molto bene la coda che faccia la rota». A questo punto gli si metta nel becco un pezzetto di canfora avvolta in cotone bagnato di acquavite. Prima di portarlo in tavola, si dia fuoco al bolo: l’effettone è assicurato e la fiamma durerà abbastanza a lungo. Semplice.
Esempi del genere nelle cronache medievali e della prima età moderna se ne trovano parecchi, anche se non tantissimi per via, come detto, del costo della materia prima.
Del tutto leggendario, invece, è che l’impanatura della cotoletta alla milanese riproduca la doratura ottenuta con oro vero. Si tratta di una delle tante invenzioni in campo culinario, l’impanatura è una procedura di origine berbera giunta in Europa attraverso la Spagna, la cotoletta alla milanese arriva a Milano dalla Francia sul finire del Settecento ed è previsto fin dall’inizio che sia ricoperta di pane e non c’erto d’oro (tra l’altro, non è affatto parente della Wiener Schnitzel).