Corriere della Sera, 4 gennaio 1901
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Rapporto dalla Cina
dal nostro inviato l.b.
«Pechino, 10 novembre 1900. A proposito della questione cinese i lettori avranno fatto l’orecchio ad una quantità di belle frasi immancabili ed immutabili, specialmente in quegli articoli che avevano, in questi ultimi tempi, lo scopo di suscitare e di mantenere “la santa indignazione”.
Raschiamo un po’ di queste dorature convenzionali per vedere, per quanto è possibile, la cosa sotto il suo vero aspetto. Si sa oramai a memoria che qui si combatte la “grande lotta della civiltà contro la barbarie dell’Impero di Mezzo”.
No. Se noi vogliamo chiamare barbaro tutto quello che è diverso da noi, la Cina è barbara. Ma se intendiamo per civiltà di un popolo l’insieme delle sue arti, della sua coltura, la sua raffinatezza, la sua scienza della vita, il suo gusto, le sue attitudini commerciali e colonizzatrici – anche colonizzatrici – il popolo cinese è un popolo civile. In Cina non esistono o quasi gli analfabeti; nelle case più povere le pareti sono ornate delle massime e dei versi dei grandi poeti. Figuratevi le case dei nostri contadini adorne di terzine dantesche stampate a lettere di scatola. Ogni casa modesta possiede una biblioteca, tenuta al posto d’onore, nella migliore camera, con cura devota.
La casa cinese è il vero home, il nido. Bella di ornamenti geniali, luminosa per le grandi griglie dai motivi fantastici ricoperte di carta, piena di ogni comfort, ricca di oggetti d’arte e di arazzi preziosi mantenuti con gelosa attenzione, la casa cinese è il vero tempio dell’intimità, il sacrario della famiglia.
L’arte cinese è nota, ingenua e gentile, arte che tutta l’Asia ha imitato, dal Tonkino al Tibet, dalla Corea al Giappone. L’arte giapponese non è che l’arte cinese messa in commercio. I Giapponesi sono i volgarizzatori della cultura cinese.
Il cinese è lavoratore assiduo, paziente, infaticabile, non è un lottatore, non un popolo guerriero —- e questo forse è il suo principale difetto. È ospitale. In tempi normali, la Cina è stata traversata per ogni verso, senza pericolo. Chester Holcombe, che ha vissuto tanti anni quaggiù, scriveva nel ’95 che è quasi più facile ad un europeo viaggiare in Cina che non ad un cinese viaggiare in Europa.
Noi europei non siamo amati qui solo perché abbiamo fatto tutto quanto era in noi per non esserlo. La nostra violenza non poteva avere una diversa conseguenza. Una volta gli europei potevano salire ai più alti onori del mandarinato, e il commercio europeo filtrava bene accetto, attraverso a Canton, in tutta la Cina. Una delle porcellane più apprezzate dai Cinesi è una specie d’imitazione cinese fabbricata in Olanda nel diciottesimo secolo. In tutte le case cinesi si trovano oggetti antichi europei. pendole del secolo scorso soprattutto, e specchi veneziani.
La famosa impenetrabilità della Cina non era data dagli uomini, ma dalla forza stessa delle cose. L’immenso colosso cinese, rimasto isolato per tanti secoli, non poteva essere accessibile tutto ad un tratto. Non si arriva, per modo di dire, ad una distanza di cento chilometri senza avere percorso i novantanove che vengono prima. Da epoche immemorabili la Cina era il centro di tutto un mondo, i Coreani al nord e i Siamesi al sud erano i soli popoli che commerciassero con la Cina per la semplice ragione che non c’erano altri popoli che potessero farlo. Quando gli europei si fecero vivi ebbero libero il passo; fu loro concesso il primo • porto aperto, Canton, il più vicino al loro sbocco nel mare cinese. Quando i Russi, ne! seicento, arrivarono alla Manciuria dopo la loro conquista della Siberia, ebbero subito, per il trattato di Nertchinsk, dei diritti commerciali e da allora le carovane con la lana siberiana cominciarono a scendere tino a Kalgan e quelle col thè a salire verso la Russia europea. La Cina si apriva naturalmente.
La guerra dell’oppio, violazione di ogni legge umana, aprì la serie delle violenze europee, e la Cina si difese. Si è richiusa. Noi non volevamo a spettare.
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Non è vero che il cinese non apprezzi e non desideri, sotto certi rapporti, la nostra civiltà. Ha paura delle conseguenze; comprende che, accettandola come noi gliela offriamo, si assoggetta al nostro sfruttamento; e si ribella.
Se i Cinesi potessero fabbricare da loro le ferrovie, la Cina in pochi anni sarebbe coperta dai pennacchi di fumo delle locomotive.
Noi abbiamo di questo popolo un concetto assolutamente falso. Chi immaginerebbe in Europa che il cinese sia il popolo più appassionato, per dirne una, della fotografia istantanea? E del fonografo? E della bicicletta? E della luce elettrica? E della luce ad acetilene? Eppure non c’è casa di benestante cinese dove non vi sia il suo bravo grafofono, il suo apparecchio fotografico, la bicicletta, e la lampada a batterie al bromuro. Il principe Tuan faceva delle fotografie, e anche suo fratello il principe Lan, capo boxer. L’Imperatrice vedova ha fatto illuminare a luce elettrica i suoi appartamenti nel palazzo di Pechino e tutto il Palazzo d’Estate, il parco compreso. Nelle sale del trono, fra le grandi lanterne cinesi, scendono dai meravigliosi rabeschi dei soffitti dei lampadari di Murano che celano fra i fogliami scintillanti le lampade ad incandescenza. Nel lago del Palazzo d’Estate si dondolano sugli ormeggi quattro magnifici vaporetti. I giardini della Città sacra sono tagliati da una ferrovia a scartamento impiantata per ordine della terribile Tsu-sci, l’imperatrice.
Dunque niente odio bestiale, cieco, fanatico contro la nostra civiltà. I Cinesi non hanno paura della ferrovia; hanno paura della ferrovia nelle mani degli stranieri. Ed hanno torto? Quando una ferrovia è fatta ci vanno senza scrupoli. La linea Ta-ku-Pechino ha avuto nel primo anno un numero di viaggiatori otto volte più grande del preveduto.
Questo è il popolo barbaro? Quando in Inghilterra fu fatta la prima ferrovia, il furore del popolo la distrusse, e si trattava di un’invenzione inglese. Quando fu creato il primo battello a vapore, i barcaiuoli bastonarono Papin che lo aveva fabbricato e distrussero il battello. Ogni nuova invenzione ha portato una rivoluzione, perché ogni invenzione ha leso dei vasti interessi. I tessitori a mano si sollevarono contro i telai a vapore, i sarti contro la macchina da cucire, i vetturini contro al tramvay elettrico, per finire con i tipografi che scioperarono per la macchina a comporre. Abbiamo mai sognato di chiamarci incivili per questo?
Ora tutto il cumulo delle nostre invenzioni, tutte le nostre macchine le gettiamo d’un colpo nella Cina patriarcale. Ebbene, se soltanto fossero scoppiate insieme le rivolte che queste invenzioni avevano disseminato fra noi nel secolo, avremmo veduto ben altro sconvolgimento truce e sanguinoso di questa rivolta di contadini quasi inermi che si chiamano boxers! Non abbiamo idea, per parlare delle sole ferrovie, di quante migliaia di battellieri, di cammelieri, di carrettieri c carovanieri una ferrovia cinese danneggia. Possiamo noi trovare straordinario che questa gente secondi un moto contro lo straniero? Specialmente quando questo moto è favorito da un governo diviso e debole?
E poi non immaginate quale tara sarebbe necessario di dare a tutte le notizie che da quattro mesi il telegrafo comunica sui boxers, per mettere le cose al posto. Le stragi, per esempio, hanno bisogno ai un ribasso del novanta per cento. I trucidati europei sono stati, grazie a Dio, quasi tutti ritrovati salvi; resta la cifra, alta sì, ma incontrollabile, dei trucidati indigeni. Dall’altro lato, nella cronaca della repressione, quante centinaia di contadini fuggiaschi ammazzati dalle truppe europee sui loro campi non sono passati come boxers all’altro mondo, nonché alla storia attraverso i dispacci.
Nessuno poi ha mai parlato delle stragi delle quali i Cinesi sono le vittime, non qui, ma nella libera America, stragi regolari con le quali a San Francisco si cerca di frenare l’“invasione cinese”. Da quel lato s’incomincia a temere il famoso “pericolo giallo” e vi si pone rimedio con una indiscutibile energia. Le colonie cinesi sul Pacifico divengono sempre più forti e floride. Come nella Malacca, come a Giava, a Romeo, a Sumatra, così in Australia, alle Filippine e in California si sono formati degli enormi centri di emigrazione cinese, e siccome il cinese è un commerciante esatto, onesto, abile ed assiduo, le correnti d’esportazione e d’importazione cominciano a passare, in alcuni luoghi, quasi esclusivamente per le mani di questi calunniati figli del Cielo, come già avviene a Penang e a Singapore. Gli Americani presentono in questi Cinesi svegliatisi troppo presto i disastrosi concorrenti di domani al dominio del Pacifico, ed hanno cominciato una persecuzione feroce che dalla negazione di ogni diritto è giunta alla forma più schietta e più sincera: al massacro. Buon per noi che i Cinesi non sappiano usare un eguale rimedio contro il «pericolo bianco».
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No; qui non ce la lotta della civiltà contro la barbarie perché non c’è barbarie. Un’altra lotta v’è accanita, al coltello, piena d’agguati e di sorprese, lotta che potrà finire nel sangue, ma quella è fra le nazioni “civili”, fra di noi. Le nazioni non vengono qui per civilizzare. E neppure per “colonizzare”. La Cina non ha posto per le braccia. I piani della Manciuria come quelli del Ci-li, i declivi del Ce-Kiang, le vallate dello Yang-tse, i colli del Quan-tung, tutta la Cina insomma è coltivata palmo a palmo; i solchi dei campi, come trame di un immenso tessuto, coprono l’Impero. La pazienza e la perseveranza cinese dissodano e fertilizzano le aride balze dei monti, erigono colossali ripari ai venti dove le tramontane siberiane scendono troppo presto a gelare i raccolti, arginano e dirigono i fiumi più grandi del mondo, dai quali spillano le acque benefiche che per canali sterminati scendono a fertilizzare le valli, nei luoghi sterili frugano nelle viscere stesse della terra per cercarvi l’acqua che traggono da pozzi profondi con sapienti apparecchi; il bel verde della coltivazione si arrampica fino alle rocce delle montagne e ruba al mare il palmo di sabbia. Nessun colono europeo otterrebbe tali risultati. La mano d’opera qui è esuberante e perciò a buon mercato. Da qui si esportano contadini, non s’importano.
E già lunghe carovane di emigranti cinesi, attirati dalle promesse delle autorità russe, prendono la via del nord, e si dirigono a fertilizzare i piani sterminati della Siberia. Tutta la parte sud della Siberia, fino ad ora era pressoché spopolata; traversata solamente due volte all’anno dalle carovane, percorrenti sempre la stessa linea, si trovava divisa dal mondo. Nessuna corrente di emigrazione vi si dirigeva; i prodotti, che la terra prometteva abbondanti, si sarebbero trovati troppo lontani da ogni mercato, asiatico o europeo, per gettarli nella voragine della consumazione orientale od occidentale, la Transiberiana, linea che fu ideata a scopi militari e che finirà per essere invece una linea essenzialmente commerciale, porterà come prima conseguenza la trasformazione della Siberia. La Siberia ravvicinata al mondo diverrà uno dei più importanti centri di produzione dell’Asia, e saranno l’operosità e l’abilità cinesi che concorreranno a questa trasformazione, le cui conseguenze economiche potranno essere incalcolabili.
Dunque niente colonizzazione. È allora la conquista che spinge le nazioni ad affollarsi intorno al colosso cinese?
Nemmeno. La conquista potrebbe avvenire per la forza degli avvenimenti, ma non è desiderata. La conquista significa la creazione di amministrazioni enormi, la nomina di uno stuolo infinito di funzionari, la costruzione di fortificazioni, il mantenimento di una forza militare, l’aumento della marina, una spesa grande per opere pubbliche, ecc. Tutto questo può essere risparmiato in Cina; i Cinesi si amministrano da loro. Pensano loro alla parte passiva della cosa.
Potrà desiderare la Russia di avanzare di alcune centinaia di chilometri al sud i suoi confini; un ordine ai suoi Cosacchi c tutto è fatto; ma non certo la Germania, che si è presa a rosicchiare l’osso duro dello Scian-tung, pensa ad aumentare il passivo della sua “Cina in affitto” prima di averne veduto il minimo frutto. Così l’Inghilterra sa bene che la conquista della regione dello Yang-tse-Kiang non annienterebbe di mezzo penny i suoi commerci nell’estremo Oriente, mentre poi aumenterebbe di parecchi milioni di sterline le uscite nel bilancio del “Colonial Office”. La Francia ne ha abbastanza della conquista laboriosa del Tonchino e dell’Amman, che servono a fare un’ottima figura all’Esposizione di Parigi, ma che in realtà non rappresentano che una vera “terra promessa”; promettono molto... per l’avvenire. Il Giappone attraversa una seria crisi finanziaria, causata dalle forti spese militari, dall’aumento della flotta, come pure dall’eccesso della produzione, la quale non trova sbocchi adeguati; il Giappone non pensa più alla conquista, e anzi la sua politica verso la Cina è una politica di riavvicinamento amichevole. Passato il periodo dei combattimenti di agosto, le truppe giapponesi hanno dato l’esempio della moderazione, fra le autorità cinesi e i capi militari giapponesi si è formato un accorilo cordiale – e basta girare i dintorni di Pechino, specialmente sulla linea di Ta-ku per accorgersene – il cui significato non può essere dubbio. Un “entente” cino-giapponese od anche una vera alleanza può essere l’avvenimento che domani sconvolgerà i progetti delle nazioni, formando il più serio pericolo che sia mai sorto nell’estremo Oriente.
Resta l’America. Gli Stati Uniti, sorti per ultimi come potenza militare, non hanno mai pensato alla conquista della Cina; il loro intervento armato nelle faccende della scorsa estate, al fianco degli altri, non è stato né spontaneo, né sollecito. L’imperialismo americano si è rotto i denti sulle Filippine. “Uncle Sam”, da quel commerciante esperto che è, ha delle idee troppo positive per non aver fatto quel calcolo delle probabilità attive e passive che ha deciso suo cugino “John Bull” a perseguire la politica della “porta aperta”, lontana da ogni idea di conquista, anzi essenzialmente basata sulla integrità del Celeste Impero.
Non si vuole la conquista anche per la paura delle conseguenze che uno smembramento della Cina porterebbe. Paura e tornaconto congiurano a mantenere le Potenze nella loro linea di condotta a questo riguardo. È così forte in tutti il desiderio di non parlare nemmeno di conquista, che nessuno mostra di accorgersi ora dei sospetti movimenti di truppe russe nella Manciuria, per timore di determinare un cambiamento radicale, e forse fatale, nella politica cinese. La Russia sta facendo della Manciuria il suo Egitto; le truppe siberiane, ritirate dal Ci-li, quasi per un atto di amicizia verso il Governo cinese, fin dal settembre scorso, sono state scaglionate nei centri manciuri. Il Governo russo ha fatto una semplice dichiarazione che viene a significare: non badate ai movimenti delle truppe russe, qualunque essi siano; essi hanno un carattere transitorio; sono dettati dalle necessità del momento... Tutti hanno creduto necessario di accontentarsene, e non se ne parla più.
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Ma allora – direte – se le Potenze non sono in Cina per civilizzare, né per colonizzare, e nemmeno per conquistare, che cosa vogliono? Fare affari. “Business”: ecco in una parola la definizione completa della faccenda cinese. Stabilita questa base, esamineremo con maggiore facilità, dal nostro punto di vista italiano, la questione. Si tratta di un cumulo incommensurabile di affari; affari già in corso, affari iniziati, ma più ancora affari di là da venire. Le sterminate ricchezze inerti della Cina stanno per venir messe in circolazione; una mostruosa guerra industriale e commerciale sta per scoppiare; gli avversari prendono posizione. Esamineremo quale dovrà essere la posizione nostra nell’enorme conflitto d’interessi, qualche colosso avrà tutto da perdere; ma noi, giovani, noi che veniamo su ora, avremo tutto da guadagnare, se sapremo fissarci una linea di condotta e se vorremo seguirla Qui c’è posto per tutti: “gli affari sono affari”».