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 2019  gennaio 08 Martedì calendario

I 50 anni di Paola Pezzo: «L’oro, il décolleté e divenni famosa»

Si presentò agli italiani sporca di fango e con la maglia semiaperta, un giorno di luglio del 1996. Dell’oro di Atlanta, di Paola Pezzo, si ricordano soprattutto quella scollatura generosa e una cascata di capelli biondi. Lei, la più grande mountain biker di sempre, oggi compie cinquant’anni.
Fu più grande la notorietà o il fastidio per come quella notorietà era arrivata?
«Indossavo il classico abbigliamento da uomo, era caldo e mi venne spontaneo tirare giù la zip. Mai avrei immaginato di diventare famosa per quello e non nascondo che il modo in cui arrivò la notorietà mi diede fastidio: venne notato il décolleté, non la grande impresa, non la grande fatica fatta per arrivare».
Chiamiamolo maschilismo.
«Ce n’era molto, nello sport, e tanto, troppo ancora oggi. L’occhio maschile è ancora dominante, e quindi accade che atlete magari meno brave di altre siano più famose perché più belle, più fotogeniche, più personaggi. Le donne devono ancora lottare molto per la parità, anche nei premi c’è troppa distanza».
Il ciclismo femminile ha spesso avuto a che fare con pregiudizi di segno opposto. Ad esempio, non le hanno mai detto: "lascia perdere la bici, ti verranno le gambe grosse?".
«C’erano mille stereotipi al tempo sulle donne che facevano ciclismo, oggi per fortuna alcuni sono venuti meno, ed è pieno di ragazze che mantengono intatta la loro femminilità anche sotto il casco».
La mountain bike è stato il suo secondo amore.
«Il primo, per una nata ai 1106 metri di Bosco Chiesanuova, non poteva che essere lo sci di fondo. Ero magra e mangiavo poco, il medico mi propose questo sport. Ero diventata brava, arrivai in nazionale giovanile, ero con Stefania Belmondo e Gabriella Paruzzi, ma a un certo punto restai fuori dal giro, non ho mai capito perché».
Sciolta la neve, arrivò la bici.
«Peppo, un dentista del mio paese mi regalò un rampichino, una bici con manubrio dritto e tre moltipliche. Mi disse che in America andavano per la maggiore, in Italia le usavano i ragazzini. Mi buttai su questo nuovo sport dei boschi, stesso paesaggio delle gare di fondo.
Diventai brava perché avevo una grande tenacia».
E poi gli americani introdussero la mountain bike alle Olimpiadi.
«Atlanta ‘96 fu la prima edizione, io sono stata la prima campionessa olimpica di sempre del cross country. Alla nostra gara c’erano 35mila persone. Fu una valanga di notorietà che all’inizio mi portò un po’ fuori strada. Avevo già vinto i Mondiali, ma l’oro olimpico ti cambia, ti porta in un universo parallelo».
Nel ’97 il momento più duro: la trovano positiva al nandrolone. Come andò?
«Vorrei non parlarne. Tuttavia in una settimana ebbi tre controlli, uno solo dei quali positivo per una sostanza che, se assunta, sarebbe dovuta restare nell’organismo per un mese almeno. Alla fine fui scagionata dalle accuse, c’era probabilmente al tempo anche una guerra politica tra laboratori e federazioni e mi presero di mira».
Scagionata e di nuovo oro olimpico, a Sydney 2000.
«Con la zip tirata fin su, quella volta».
Oggi di cosa si occupa?
«Ho una scuola di mountain bike a Valeggio sul Mincio e collaboro con un liceo scientifico sportivo di Brenzone sul Garda. Lì il ciclismo, con le sue specialità, è materia scolastica per cinque anni, una cosa rivoluzionaria».
Con suo marito, l’ex velocista Paolo Rosola, ha avuto due figli, Kevin e Patrick, due ottimi sportivi.
«Kevin ha 16 anni ed è al primo anno da junior, ama ciclocross, mountain bike e sta iniziando anche con la strada, nella Ausonia di Pescantina. Patrick ha 11 anni e dopo il basket è passato al calcio, ora è portiere nelle giovanili del Chievo. Famiglia sportiva, è questione di Dna evidentemente. E doppio cognome, Pezzo Rosola. È giusto così».