La Stampa, 8 gennaio 2019
Cibo, alcol, droghe o Internet: così il cervello sfugge al controllo
Chi ha pensato di fare i conti delle calorie ingerite nelle ultime due settimane ha preferito, probabilmente, fermarsi subito dopo gli antipasti del Cenone. Ma qualche senso di colpa deve coltivarlo.
«Perché continuate a mangiare, se non avete fame!?», ammoniva Florence Giorgetti nel film «La Grande Abbuffata». Sempre più spesso il cibo diventa, in effetti, una forma di grave dipendenza, al pari di molti altri comportamenti anomali: gioco d’azzardo, fumo, alcol, sesso, droghe… ma anche iper-lavoro, shopping compulsivo, Internet e social frequentati 24 ore al giorno. Queste condizioni estreme sono molte e diverse tra loro. E in continua crescita.
«All’origine delle dipendenze c’è un meccanismo fisiologico che è alla base della vita stessa, quello che ci stimola a cibarci e riprodurci», spiega Paolo Girardi, ordinario di psichiatria e direttore della scuola di specializzazione in psichiatria ed esperto di psicopatologia delle dipendenze all’Università La Sapienza di Roma. Dagli Anni 90, tuttavia, l’idea che la dipendenza, soprattutto dalle droghe, sia una vera e propria malattia cerebrale è diventata assiomatica. E anche al di fuori dagli ambiti medici sì è sempre più spesso portati a pensare che alla base di questi comportamenti deviati ci sia un cervello «malato» o, almeno, differente da quello delle persone che riescono a non cadere in «vizi senza ritorno».
È un’analisi - ci si chiede ora - un po’ troppo semplicista di un fenomeno, in realtà, estremamente complesso? Ed è davvero così? «No - chiarisce Girardi - se non in un numero molto limitato di casi gravi». Adesso si fa infatti strada un’ipotesi parallela, secondo la quale - spiega il professore - «la base della dipendenza patologica è rappresentata da un meccanismo filogenetico, nel quale determinati comportamenti risultano in una ricompensa, o “reward”, basati sul rilascio di dopamina: è, questo, un neurotrasmettitore che entra in gioco tutte le volte che dobbiamo sviluppare un appetito o un desiderio per appropriarci di qualcosa».
Tutte le sostanze di cui facciamo un uso smodato esercitano un effetto dopaminergico e, quindi, sono in grado di aumentare la sensazione di piacere attraverso varie forme. Diminuendo l’ansia oppure la fatica: vantaggi che si acquisiscono dalla sostanza - droga o alcol, per esempio - senza essere costretti ad alcuno sforzo. Quando questo meccanismo del «reward» viene sollecitato e funziona in modo sempre più rapido, allora finisce per identificarsi con uno specifico oggetto del desiderio. «Se mi sono abituato a pensare che il pollo arrosto è buono, quando ho fame mi si crea in testa l’immagine “ho proprio voglia di mangiare il pollo arrosto”. In realtà potrei soddisfare la mia fame anche mangiando un piatto di cicoria, eppure sono spinto da quello specifico desiderio». Nessuno di noi, quindi, può dirsi davvero libero da un simile tipo di appetiti, anche se nella maggior parte dei casi questi fenomeni non sfociano in una vera e propria dipendenza.
«Tutti i disturbi che comportano una diminuzione del tono dopaminergico predispongono a una dipendenza, così come le abitudini quotidiane - continua Girardi -. Pensiamo all’enorme consumo di zucchero, perché ci piace. Quel “ci piace” è un meccanismo dopaminergico: si è creata una dipendenza dallo zucchero. Chi, poi, con il tempo ha deciso di diminuire le quantità di zucchero nel caffè ha adottato la scelta in modo permanente: diminuendo lo zucchero è diminuita la dipendenza».
Questa, quindi, non è una dipendenza patologica, perché posso farne a meno. Nella dipendenza patologica, invece, si instaura un legame fortissimo, come avviene con quella da nicotina, sostanza che è considerata tra le più «aggressive». Ma quali sono le situazioni in cui la dipendenza è patologica a prescindere dall’incontro con la sostanza e dove, quindi, esiste un disturbo dell’organizzazione cerebrale? «Ne esistono alcune forme, non solo nel senso di un danno anatomico, ma anche funzionale. Quando parliamo di dipendenza patologica, parliamo di qualcosa che coinvolge l’essere umano in tutti i suoi aspetti, psicologici e socioculturali - spiega Girardi -. Ci sono disturbi come il deficit dell’attenzione o la depressione che predispongono alle droghe e tuttavia l’influsso dei modelli culturali si rivela decisivo: tra i giovani, se non bevi o non fumi, ti senti tagliato fuori. Si assume una sostanza perché si prova ansia o perché fa stare meglio, ma poi la sostanza stessa fa compiere il secondo passo ed è qui che si crea la dipendenza».
Non è un processo lineare, semmai un sistema di causalità circolare. Tanto che «misurare la dipendenza non come risultante ma come causa è un atteggiamento riduzionistico. E quindi inaccettabile».