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 2019  gennaio 08 Martedì calendario

Biografia di Wilbur Smith

Wilbur Smith (Wilbur Addison S.), nato a Broken Hill (all’epoca in Rodesia del Nord, oggi in Zambia e rinominata Kabwe) il 9 gennaio 1933 (86 anni). Scrittore. Oltre 120 milioni di copie vendute nel mondo, circa un quinto delle quali in Italia. «Non prenderò mai il Nobel: sono solo un artigiano e desidero solo divertire la gente, ma sono molto, molto ricco» • «Una vita così ricca di rischi e colpi di scena da far apparire monotoni i romanzi di Wilbur Smith. Che ancora in fasce è sopravvissuto alla terribile malaria cerebrale, a 16 anni alla poliomielite (tutt’oggi zoppica), a 20 alla Bilharzia (verme dei fiumi che attacca l’intestino). Che è cresciuto nel ranch del padre: 12 mila ettari di foresta e savana e, a curare il bestiame, cinquanta dipendenti neri. Che ha imparato a usare il fucile a 8 anni, a guidare la jeep a 9, a cavarsela da solo a 12: “Una notte che i miei genitori non c’erano, tre leoni hanno ucciso 12 dei nostri capi. Li ho affrontati mentre li stavano sbranando. Uno mi ha caricato: ho ammazzato prima lui, poi gli altri”» (Antonella Barina) • Famiglia britannica. «Sa perché mio padre mi ha chiamato Wilbur? Oltre che per bilanciare con un nome inconsueto il cognome, lo ha fatto in onore di uno dei fratelli Wright, i trasvolatori. Lui aveva il volo nel sangue» (a Maurizio Bono). «Nonno cacciatore e guerriero: comandò una batteria di mitragliatrici nella Guerra anglo-zulu. Padre macho, facile alla cinghia, accanito nemico dei libri, roba da donnette. Per fortuna c’era la madre, avida lettrice, che ogni sera gli leggeva magnifiche storie» (Barina). «Quando ero bambino, non c’era la tv e vivevamo in un contesto remoto. Andavamo nella biblioteca della città ad affittare i libri, e ricordo ancora il suono del vecchio telefono quando squillava: mia madre correva a rispondere, e se ci annunciavano l’arrivo di un volume ordinato era una grande gioia. Il momento più atteso della giornata era quello in cui si andava a letto e mia madre leggeva una storia a me e a mia sorella. L’amore per i libri in me è nato così: da quelle scatole magiche, da cui venivano fuori storie meravigliose. E dal modo di raccontare di mia madre. […] Mi vengono in mente i safari con i miei genitori: avevo tre anni, e a quei tempi non si viaggiava certo con le macchine. Mi sistemavano in una specie di amaca, alle estremità c’erano due africani che mi trasportavano a piedi. Ricordo esattamente il verso dei leoni intorno alla tenda nella notte. E l’avventura, appunto: quando i leoni mangiatori di uomini assalivano il campo e gli uomini uscivano per ucciderli, la confusione, l’oscurità, le corse in ogni direzione. Mio padre sparava, io lo spiavo» (a Sabina Minardi). «Provengo da una famiglia di cacciatori con una lunga tradizione, iniziata da mio nonno e poi trasmessa a me da mio padre, che amava moltissimo la caccia e i viaggi. Mio nonno si occupava del trasporto dei macchinari che servivano alle miniere di oro e diamanti: portava dalla costa all’interno queste preziose merci con carri trainati da buoi. Mio padre e mio nonno conoscevano molto bene sia le abitudini degli animali, sia il territorio in cui si muovevano. Ho imparato ad amare la caccia ascoltando i racconti dei loro safari. Poi, quando avevo otto anni, papà mi regalò il primo fucile, un calibro 22 Remington, con cui ho cominciato a sparare agli uccelli che poi cucinavo e mangiavo assieme ai miei compagni di giochi» (a Luca Crovi). «Quando sono cresciuto io negli anni Trenta, in un territorio che ora è nello Zambia, […] non c’erano macellerie né supermercati. Se volevi mangiare proteine, dovevi andare a caccia» (a Claudia Morgoglione). Seminale, nella sua formazione, un episodio dell’infanzia: «Tre leoni sanguinari e mangiatori di uomini che irrompono di notte nell’accampamento dove Wilbur Smith bambino dorme con il padre e un gruppo di cacciatori. Il padre che, svegliato dai ruggiti e dalle urla delle guardie, balza in piedi e, ancora mezzo addormentato, con la torcia in una mano e il fucile nell’altra, inciampa nel telo della tenda e si rompe il naso contro il palo. Wilbur che sbirciando dal suo lettino vede il leone maschio, con l’ascia strappata a una guardia tra le mascelle, caricare il padre. “Senza pantaloni, esibendo la propria nudità al mondo, con il sangue che gli colava dal naso ferito, papà tenne testa al leone maschio che l’assaliva. Gli puntò la luce addosso e sparò con il fucile nell’altra mano come se fosse una pistola, centrandolo in pieno petto”. Con altri due colpi cadono le due leonesse» (Lauretta Colonnelli). «Guardai lo spazio vuoto fra lui e i leoni, e mi resi conto di quanto fossimo andati vicino a diventare le vittime di quelle belve feroci. Poi, mentre fissavo sbalordito i mangiatori di uomini stesi di fronte a me, fui assalito dalla consapevolezza che se io e mia sorella non eravamo diventati la loro cena lo dovevamo all’unica persona che si era messa in mezzo: mio padre, il mio eroe, il mio dio». «Anche per sopravvivere ad anni di collegio, in una sorta di Eton del Sudafrica, ci volle coraggio: “Giù frustate, inverni artici, cibo da schifo. E, durante le vacanze universitarie, papà voleva che guadagnassi due soldi sulle baleniere. O nelle miniere d’oro”. Il tutto per approdare a un noiosissimo lavoro di contabile del fisco» (Barina). «Come tutti i ragazzi vagavo alla ricerca di un posto che potesse andare bene per me in questo mondo. Non è passato molto tempo prima di capire che non sarei mai diventato un medico o uno scienziato, ma che l’unica mia aspirazione era creare delle storie. A 25 anni, alla fine dell’università, ho scelto la scrittura: da allora è stata una ricerca, un inseguimento continuo di questo obiettivo» (a Grazia Lissi). «Ho cominciato a scrivere alle scuole elementari: avevo più o meno dieci anni, e in questi primi racconti ero sempre io che figuravo come eroe, come personaggio principale. […] A scuola prendevo degli ottimi voti per i miei componimenti, poi alcuni racconti erano stati anche accettati dalle riviste che in quel periodo pubblicavano, e quindi tutti quei piccoli successi letterari mi avevano incoraggiato a lanciarmi nell’avventura del romanzo completo, così ho pensato: “A questo punto scriverò un romanzo che sorprenderà tutti”. Cos’ho fatto? Ci ho buttato dentro di tutto, ma proprio tutto quello che mi passava per la testa, iniziando a pontificare sul presente e sul passato, ottenendo un romanzo terribile e del tutto illeggibile. Conteneva, in effetti, tutti gli errori tipici di uno scrittore esordiente. Ero convinto che avrei avuto un successo devastante, e invece più di trenta editori l’hanno rifiutato. Perciò ho cambiato registro» (ad Annamaria Trevale). «La svolta è scrivere di ciò che conosce. Ed ecco che torna a quella notte dell’infanzia: “A 29 anni presi la penna e un vecchio ricordo mi si affacciò alla mente. Era il ricordo di quando mi ero svegliato e avevo guardato mio padre uccidere tre leoni mangia-uomini senza battere ciglio. La mia mano si stava già muovendo sulla pagina per scrivere alcune parole: Il destino del leone. Avevo un titolo. Finalmente avevo imboccato la strada verso la libertà eterna”. Il destino del leone, primo romanzo del ciclo dei Courtney, è l’inizio del successo. Più avanti, i racconti della madre sulla tomba di Tutankhamon ispireranno la saga dell’Antico Egitto; l’incontro in Africa con un ex pilota della Raf sarà il seme per Un’aquila nel cielo. Mentre, via via che la fama (e la disponibilità economica) aumentano, in un crescendo di adrenalina, l’autore inizia a esplorare l’Africa dalle viscere al cielo, per condurre ricerche che diano sostanza alla sua fantasia: con i minatori di Johannesburg per Una vena d’odio; con gli archeologi sulle rive del Nilo per Il dio del fiume» (Alessia Rastelli). «I romanzi di Wilbur Smith rievocano […] la storia degli avventurieri e dei coloni del Sudafrica, come ad esempio i Courtney, una famiglia di esploratori e condottieri inglesi avversaria degli olandesi nelle terre sudafricane. A questo ciclo di passioni, esplorazioni e amori, con 12 romanzi divisi in tre atti, si aggiunse presto il ciclo dei Ballantyne (4 romanzi a partire da Quando vola il falco, 1980, più 2 in cui i Ballantyne incontrano i Courtney) e i romanzi egizi a partire da Il dio del fiume (1993). I libri di Smith sono avventure cui fanno da sfondo la natura africana, i safari, le battaglie per gli insediamenti occidentali, cui più recentemente si aggiungono le lotte contro l’apartheid e la vita nel continente postcoloniale, vicende di eroi dalla pelle bianca e dalla pelle nera. Storie che raccontano episodi d’avventura ma anche fatiche, passioni e dolori, in parte ispirati alla sua stessa vita. […] Ai cicli familiari si è aggiunto un nuovo ciclo, nato nel 2011, che ha come protagonista Hector Cross, ex ufficiale della Sas, Special Air Service inglese. Ritiratosi dal servizio, Cross è ora il proprietario della Cross Bow, agenzia che si occupa della sicurezza di una compagnia petrolifera, la Bannock Oil, e dovrà difendere la famiglia Bannock da una serie di pericoli» (Ida Bozzi). Negli ultimi anni, Smith ha prodotto nuovi capitoli della saga dei Courtney, che ora conta in tutto 17 romanzi, e l’autobiografico Leopard Rock – L’avventura della mia vita (2018). «Leopard Rock era il nome della grande riserva di caccia in cui sono cresciuto per molti anni, situata nella zona del Gran Karoo, abitata da animali come antilopi, alci, kudù, cervi, leopardi di montagna. Era un posto in cui noi ci prendevamo cura di queste magnifiche creature e delle persone che si occupavano di loro. Un inno alla bellezza della natura. Non riesco a pensare a niente di più magico: per questo ho intitolato così il libro». Attualmente Smith ha già in serbo un nuovo libro per il prossimo futuro: «Il mio nuovo libro, Il re dei re, sarà un sequel de Il trionfo del sole, in cui i Ballantyne e i Courtney si ritroveranno in una esplosiva situazione politica in Africa, alcuni anni dopo il loro ultimo incontro durante l’assedio di Khartoum» (a Riccardo De Palo) • «L’avventura di Wilbur Smith […] è anche quella di mentore: proprio ricordando le difficoltà con cui ebbe inizio la sua carriera, ora lo scrittore, che vive a Londra, ha creato con la moglie Niso (abbreviazione del nome tagico Mokhiniso Rakhimova) una fondazione dedicata agli aspiranti autori di libri d’avventura. “La Fondazione che io e mia moglie Niso abbiamo creato – ha affermato Smith – è dedicata alla scoperta e alla promozione di nuovi scrittori d’avventura. Oggi le informazioni sul mondo editoriale sono più disponibili, certo, ma le difficoltà per chi ha talento e vuole esprimerlo permangono”» (Bozzi) • Ha destato sensazione il contratto stipulato nel 2012 con l’editore HarperCollins, in base al quale, per 15 milioni di sterline, Smith si è impegnato a licenziare sei nuovi romanzi accettando la possibilità di avvalersi di alcuni coautori. «L’idea è nata dal fatto che, anche se io pubblico un libro ogni due anni, più o meno, i lettori chiedono sempre più romanzi, e di certo non posso stare al passo con le loro richieste. Un libro necessita di un certo tempo per le ricerche e poi altri mesi per la stesura, ovviamente. […] Nel contratto ho un’opzione per cui posso scegliere se scrivere i romanzi da solo o se avvalermi di questi coautori. […] Il fatto è che io ho tante, tantissime storie in mente e non riesco a scriverle tutte: ci sono anche personaggi dei libri precedenti che vogliono tornare in scena… Posso solo dire che non si tratta di un’idea originale, perché già James Patterson […] ha fatto questa scelta, e poi diciamo anche che io non sono uno scrittore letterario: sono uno storyteller. Per uno scrittore letterario ogni parola è intoccabile e inviolabile. Per me è la storia a essere la regina del romanzo: le parole servono solo a portare avanti la storia» (a Barbara Tomasino). Il primo libro scritto dichiaratamente a quattro mani è stato Il leone d’oro (2015), firmato da Smith con Giles Kristian. «È andata bene perché io ho avuto il completo controllo. Ci siamo incontrati molte volte, abbiamo discusso della trama, abbiamo costruito lo scheletro della storia. Poi lui mi ha mandato le prime cento pagine, io le ho corrette togliendo quello che non andava. Alla fine ho riscritto tutto: diciamo che ho cambiato la metà delle parole» (a Piero Degli Antoni) • «Una produzione sconfinata, quella smithiana, ampiamente saccheggiata dal cinema, con cui lo scrittore ha il seguente rapporto: “L’ideale è vendere i diritti senza che il film si realizzi”» (Annarita Briganti) • Due figli (un maschio e una femmina) dalla prima moglie, un altro dalla seconda: entrambi i matrimoni, contratti in giovane età, furono brevi e si conclusero col divorzio. Molto più lungo il terzo matrimonio, celebrato nel 1971 e a lungo felice, ma funestato negli ultimi sei anni dal cancro al cervello della moglie, morta nel 1999. Nel 2000 Smith si è sposato in quarte nozze con una donna tagica di 39 anni più giovane di lui, conosciuta in una libreria di Londra. «Stava per acquistare un libro di John Grisham. Mi avvicinai e attaccai bottone: il suo insegnante di lingua le aveva consigliato di leggere un libro di autore inglese. Le dissi di lasciar perdere Grisham, e le misi in mano uno dei miei libri, Monsone. […] Uscendo dalla libreria siamo andati a pranzo, e da allora abbiamo sempre pranzato insieme» • «Wilbur Smith negli anni tragici della lotta per l’indipendenza sosteneva il Progressive Party di Helen Suzman, che riuniva i bianchi socialisti favorevoli alla fine dell’apartheid, ma lui era convinto che solo Mangosuthu Buthelezi, capo degli zulu, avrebbe potuto unire la nazione sudafricana. Poi a vincere fu Mandela: "Ho per lui un grandissimo rispetto: è riuscito in una impresa che mi sembrava impossibile"» (Natalia Aspesi). «Di tutti gli uomini che l’Africa ha prodotto, bianchi o neri, Mandela è il migliore» (a Michele Farina) • «La miscela che impiega da anni è un’arma micidiale: trame avventurose nutrite da passioni estreme; il gusto di complicare la vita a tutti i personaggi, senza occhio di riguardo per nessuno; la dedizione e l’erudizione per rimuovere, uno dopo l’altro, gli ostacoli. Risultato: romanzi popolari di qualità. Il gusto antico del raccontare, sostenuto dall’istinto del giornalista […] che annota i dettagli, fiuta le piste, traccia architetture narrative intricate. Lo sfondo cambia, ma il format resta» (Minardi). «Le sfumature non sono mai state il punto forte di Wilbur Smith: i critici hanno parlato di trame un po’ schematiche, personaggi poco sfaccettati, esplosioni caricaturali di sesso e violenza. Una delle chicche: “La sferza lo colpì al viso e gli fece schizzare fuori dall’orbita il bulbo oculare destro, che, ancora attaccato al nervo ottico, gli penzolò sulla guancia”» (Barina). «L’ideologia di Smith resta […] oggetto di un po’ di diffidenza critica. Una ragione è antica. Il suo primo libro in Sudafrica fu messo al bando dal governo come succedeva a moltissimi in piena apartheid, ma lo fu per il motivo sbagliato: “linguaggio troppo esplicito”. Del resto, Smith, a chiederglielo anche adesso, si considera “uno scrittore britannico, britannico coloniale: i miei venivano dall´Inghilterra. È una questione di radici”, peraltro esplorate in lungo e in largo nelle sue saghe con protagonisti anglo-africani dal ’600 al ’900, e incastonate di cacce nel bush, esperienze virili di frontiera, pugilato di strada e uomini veri in mezzo al mare. Non rinnega niente, naturalmente, però precisa: “Non bisogna fare l’errore di scambiare quello che penso io con quello che dicono i miei personaggi”» (Maurizio Bono) • «L’approccio è sempre una sfida al “politicamente corretto”. Quest’ultimo, denuncia Smith, avrebbe ucciso pure la mascolinità: “Ha costretto un’intera generazione di uomini a tenerla celata”. E il concetto di eroe: “Dove sono oggi i titani della vita pubblica? Dov’è Churchill? Dov’è Roosevelt? Dov’è Mandela? Gli eroi odierni sono celebrità, ma Rooney non è Lawrence d’Arabia”. Quindi, proclama, “queste regole non si applicano ai miei libri”, e chiama in causa Omero, “il primo ad aver compreso il bisogno umano di eroi ed eroine”» (Rastelli). «Eroi, […] nel corso degli anni, ho avuto la fortuna di conoscerne parecchi, ma sarebbe impossibile sopravvalutare l’influenza che mio padre e mio nonno hanno avuto su di me. Per me eroi ed eroine, reali o immaginari che siano, hanno sempre illuminato un mondo altrimenti tetro sin dai tempi di Beowulf e dei poemi di Omero, l’Iliade e l’Odissea. E gli eroi possono avere sembianze assai diverse, da Taita, lo schiavo eunuco che continua a sussurrarmi all’orecchio, a Saffron Courtney, agente dei servizi segreti inglesi». «Il piano è semplice. Create un eroe forte, e poi gettatelo in una situazione pericolosa. L’immaginazione farà il resto del lavoro» • «Il più importante scrittore di avventure del nostro tempo» (Fernanda Pivano) • «Mio nonno era un grande raccontatore di storie, capace di farti uscire gli occhi dalle orbite, quando parlava. In gioventù aveva guidato un gruppo di mitragliatori Maxim durante la Guerra degli zulu. Il suo nome era Courtney James Smith. È a partire da lui, dal suo spirito, che sono iniziate le grandi avventure della famiglia Courtney». «I miei genitori sono stati una guida. Ho avuto la fortuna di avere una madre colta e gentile e un padre molto virile. Oltre alla fortuna di nascere in Africa, forziere senza fondo di storie, che non basterebbe una vita per raccontare tutte». «Dalle foreste alle montagne, dai grandi fiumi alla Savana ho trovato un immaginario incredibile, popolato da possenti elefanti o minuscoli roditori, abitato dai giganteschi watussi e dai minuscoli pigmei, attraversato dai boscimani e dai khoikhoi. Mio padre aveva un aeroplano personale, e con lui ho sorvolato laghi, montagne e fiumi, accorgendomi di quanto fosse grande questo continente e quanto diverso da regione a regione. Mi sono trovato a disposizione un’immensa ricchezza che non potevo non riraccontare» • «Non si può essere scrittori senza avere una ferrea disciplina, senza sapere cosa significa trovarsi alla scrivania giorno dopo giorno dopo giorno. Bisogna veramente voler essere scrittori e sapere cosa comporta nella vita di tutti i giorni. […] Bisogna scrivere per se stessi, scrivere dal cuore e con passione» (a Francesco Musolino). «Devi avere la forza per scrivere, anno dopo anno. Uno o due libri non fanno uno scrittore. Per essere un autore conclamato devi lavorare venti anni e pubblicare tra i dieci e i quindici libri. Una prova che io credo di aver superato» • «Non so immaginarmi un’altra cosa che mi piacerebbe fare se non essere un “creatore di mondi”, inventarmi battaglie, tagliare teste, massacrare gente sul campo, punire i cattivi. La bellezza sta nel fatto che si tratta di un universo in cui nessuno soffre e alla fine tutti sono contenti». «Per prima cosa mi documento moltissimo, e soprattutto scrivo solo di ambienti che conosco molto bene: ecco perché c’è sempre tanta Africa nei miei libri. Una documentazione più che esaustiva è fondamentale per la credibilità della storia. […] Per lo più scrivo di getto, per poi tornare indietro e rifinire, in modo tale che ogni frase esprima al massimo emozione e forza. […] La scrittura non solo mi ha cambiato la vita, ma è la mia vita». «Una volta qualcuno mi ha chiesto: “Se non avessi fatto lo scrittore, che cosa saresti stato?”. Io ho risposto: “Morto”». «Il mio obiettivo è scrivere fino al giro di boa dei cento anni, vivendo con lo stesso entusiasmo che infondo nei miei personaggi. Voglio essere ricordato come qualcuno che ha fatto divertire milioni di lettori e che facendolo ha passato del tempo fantastico. Se mi guardo indietro, non ho alcun rimpianto. Anche adesso, mentre qui da me l’autunno sfuma verso l’oro, il marrone, l’arancio, mi sento benissimo. Voglio scrivere fino all’ultimo respiro. E anche dopo: dalla mia tomba uscirà fuori un artiglio ossuto e comincerà a scrivere».