il Giornale, 8 gennaio 2019
Scoperto il «gene del maratoneta»
L’uomo è un animale predatore ed è fatto per correre. Grazie alla resistenza e alla posizione eretta ha sviluppato il suo istinto di caccia. Dalle foreste alla savana africana, l’uomo ha affinato la sua corsa. Rispetto agli altri primati è un eccezionale corridore di lunga distanza. Del resto, secondo Liebermann e Dennis Bramble in uno studio pubblicato nel 2004, gli ominidi hanno iniziato a correre due milioni di anni fa. Tutti gli esseri umani condividono una propensione per la corsa a lunga distanza. Ma questa caratteristica da dove deriva? Certo, come da tradizione s’intende, dalla nostra conformazione fisica, dai tendini, dallo sviluppo osseo, dalla lunghezza degli arti e dal volume dei nostri glutei. Ma secondo uno studio dell’Università di San Diego, pubblicato a settembre 2018 sulla Royal Academy e uscito ora sulla rivista Scientific American, sulla nostra capacità di diventare corridori di resistenza influisce anche una mutazione genetica.
Lo studio si lo si concentra sul gene CMP-Neu5Ac Hydroxylase, chiamato comunemente Cmah. Tale gene, secondo gli scienziati sarebbe mutato circa 2-3 milioni di anni fa, nel momento in cui gli ominidi stavano cambiando stile di vita. I risultati, basati su una ricerca sui topi condotta dal medico cellulare e molecolare dell’Università di California San Diego Ajit Varki, indicano che la mutazione del gene può aver aperto la strada alla corsa a lunga distanza. La mutazione avrebbe reso il gene Cmah completamente inattivo. La mutazione si è diffusa nello stesso momento in cui gli esseri umani hanno iniziato a discostare il loro comportamento da quello dei primati e quando l’evoluzione ci ha portato a diventare più simili all’uomo contemporaneo, con adattamenti anatomici e fisiologici.
La trasformazione fisica ci ha regalato piedi più grandi, muscoli dei glutei più forti, gambe più lunghe, ghiandole sudoripare sviluppate che ci hanno permesso di controllare le temperature sotto il cocente sole africano. L’inattività del gene ci ha regalato resistenza. E dato che tutti gli esseri umani condividono il non funzionamento di questo gene, Varki si è chiesto se questo evento genetico avesse modificato qualcosa. Varki ha passato anni a studiare i topi per cercare un nesso con la resistenza e per riuscire a capire se l’inattività del gene Cmah nei topi potesse avere effetto. Però, aveva bisogno di provare il collegamento tra resistenza e inattività del gene. «Per circa 10 anni ho cercato di convincere qualcuno nel mio laboratorio a mettere questi topi su un tapis roulant», dice Varki a Scientific American. E quando, finalmente, è riuscito ad avviare l’esperimento «ecco che senza alcun addestramento, i topi erano una volta e mezza più bravi a correre».
I muscoli posteriori dei piccoli roditori riuscivano ad utilizzare l’ossigeno in maniera più efficiente, avevano più capillari e diventavano più resistenti alla fatica fisica. Durante la ricerca gli scienziati hanno valutato la capacità di esercizio dei topi e osservato un aumento delle prestazioni durante il test su tapis roulant forzato e anche dopo 15 giorni. Hanno visto che la perdita di Cmah contribuisce a migliorare la capacità del muscolo scheletrico per l’uso di ossigeno. L’essere umano ha sviluppato la resistenza fisica per riuscire a mantenere il ritmo anche su lunghe distanze. Nell’uomo, la perdita di Cmah potrebbe aver fornito un vantaggio selettivo ed evolutivo per i nostri antenati nelle ampie terre della savana africana.