il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2019
Sul referendum grillino
Se i 5Stelle vogliono fare un danno a se stessi e soprattutto all’Italia, non hanno che da tirare diritto con la riforma costituzionale sul referendum propositivo senza quorum. Così qualunque lobby spalleggiata dai soliti giornaloni potrà cancellare leggi sgradite, approvarne di gradite e spacciare quell’arbitrio per democrazia diretta. Il ddl costituzionale del ministro Riccardo Fraccaro, purtroppo previsto dal contratto di governo e in aula alla Camera dal 16 gennaio, funziona così: chi raccoglie almeno 500 mila firme può chiedere un referendum non solo per abrogare una legge, ma anche per proporne una. Per evitare il voto, il Parlamento dovrà approvare la legge tale e quale entro 18 mesi, sennò la parola passerà alle urne. E lì i cittadini dovranno dire sì o no alla proposta referendaria se il Parlamento l’avrà ignorata; oppure, se l’avrà approvata modificandola anche solo di una virgola, dovranno scegliere fra la versione originaria e quella emendata, in una sorta di ballottaggio. E, fin qui, tutto bene. Ma oggi il referendum è valido solo se va a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto, mentre in futuro lo sarebbe sempre, anche se alle urne andasse un solo elettore. E questo è assurdo. Come ha spiegato il costituzionalista Gaetano Azzariti ieri al Fatto, è un’ottima idea coinvolgere i cittadini nella vita democratica non solo con le elezioni tradizionali e rivitalizzare i due istituti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione.
Uno è il referendum, ormai sfinito e svuotato dalla pletora di quesiti, spesso astrusi e poco coinvolgenti (tipo molti di quelli radicali), e dallo sbarramento del 50% (pensato dai costituenti nel 1948, quando votavano quasi tutti, mentre oggi l’astensione si avvicina paurosamente alla metà degli elettori, e in molte amministrative come nei referendum già la supera). L’altro sono le proposte di legge di iniziativa popolare, finora regolarmente ignorate dal Parlamento (dal 1979 ne sono state presentate 242, di cui solo 3 approvate e ben 151 mai neppure discusse): sarebbero assorbite nel referendum propositivo, anche se vedrebbero decuplicato il numero delle firme in cambio della garanzia assoluta di non vederle ammuffire nei cassetti delle due Camere. Nella storia repubblicana, i referendum abrogativi sono stati 67, di cui 39 riusciti e 28 falliti per mancato quorum. E la tempistica è indicativa: dal 1974 (l’anno del primo, quello sul divorzio) al 1995 (legge elettorale dei comuni e antitrust tv), la maggioranza ha sempre votato, eccetto nel 1980 (caccia e fitofarmaci); dal 1997 a oggi è sempre rimasta a casa o è andata al mare, eccetto nel 2011.
Ma allora i temi dell’acqua pubblica, del nucleare e del legittimo impedimento pro B. erano temi caldissimi. Quindi il problema del quorum esiste, ma non si risolve abolendolo: la Lega proponeva di abbassarlo al 33% dell’intero elettorato, poi ha ritirato l’emendamento per quieto vivere; altri suggeriscono di lasciare il 50%, ma non sul totale degli aventi diritto, bensì dei votanti effettivi alle ultime elezioni parlamentari. In ogni caso un quorum ci vuole, per evitare che piccole minoranze si autoproclamino popolo e impongano le loro leggi particolari, quasi private, alla stragrande maggioranza. E nessuno dovrebbe capirlo meglio dei 5Stelle, nati e sempre vissuti nel più assoluto isolamento, avendo contro tutti i poteri, le lobby e i media. I quali si coalizzerebbero per sfruttare quell’isolamento nelle urne e ribaltare leggi scomode e imporre norme a proprio uso e consumo “cammellando” le piccole minoranze di elettori che riescono a controllare. E potrebbero farlo in quasi tutte le materie, visto che la proposta Fraccaro non impone limiti se non quello dei “principi fondamentali della Costituzione e i vincoli europei e internazionali”, mentre ora la Carta esclude i referendum su “leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali” e, ovviamente, su norme costituzionali. Esempio: se l’analisi costi-benefici del Tav Torino-Lione darà esito negativo e il governo annullerà finalmente quell’opera assurda, basterebbero un pugno di madamine, umarell e galoppini del partito degli affari, opportunamente mobilitati dalla stampa di regime a suon di balle, per metter su un referendum e ripristinare quell’enorme spreco di denaro pubblico nell’indifferenza del resto d’Italia (convinta, grazie alle fake news dei giornaloni, che si tratti di un magnifico treno passeggeri anziché di un inutile treno merci). Perciò i 5Stelle farebbero bene a tener conto di alcune obiezioni della Lega e delle opposizioni: almeno quelle serie. Non lo è invece il timore di molti che, nel derby popolo-Parlamento, quest’ultimo esca “delegittimato” se viene bocciata la sua versione di una legge referendaria e approvata quella dei promotori. Il Parlamento rappresenta il “popolo sovrano”, dunque i rappresentati prevalgono sui rappresentanti. Anzi, un referendum propositivo col quorum ridotto avrebbe la funzione “legittimante” di una verifica periodica della rispondenza del Parlamento al volere dei suoi datori di lavoro: un salutare “recall” per tenere i parlamentari sulla graticola ed evitare che si sentano onnipotenti e sciolti dagli obblighi con chi li ha mandati lì. E il recall, già previsto in alcuni Paesi d’Europa, sarebbe un ottimo rimedio anche contro i voltagabbana venduti e non: per garantire la coerenza degli eletti con gli impegni assunti dinanzi agli elettori non c’è bisogno di multe, espulsioni, o vincoli di mandato. Basta prevedere che chi trasloca dalla maggioranza all’opposizione e viceversa si dimetta da parlamentare o si rimetta al voto dei cittadini (senza quorum, come nelle elezioni parlamentari): decideranno se lasciarlo lì o mandarlo a casa.