la Repubblica, 8 gennaio 2019
L’imperatore cinese che si fece immortale
Il 22 ottobre del 1950, un anno dopo la promulgazione, nel Parlamento argentino, di una nuova Costituzione che avrebbe consentito la rielezione indefinita del Presidente della Nazione, concedendo così al generale Perón una sorta di immortalità simbolica, Jorge Luis Borges pubblicò sul quotidiano La Nación un breve testo che oggi è diventato un classico, La muraglia e i libri. Il suo proposito, ci dice Borges, era unicamente fare qualche riflessione sull’imperatore cinese Qin Shi Huang (che Borges chiama, secondo l’antica nomenclatura, Shih Huang Ti), che all’inizio del III secolo a.C. «proibì che si menzionasse la morte e cercò l’elisir dell’immortalità». Qin Shi Huang è famoso per aver ordinato l’edificazione della grande muraglia e aver fatto bruciare tutti i libri anteriori a lui. In tre pagine ammirevoli, Borges menziona certi aspetti essenziali di quel misterioso personaggio: sorvola però su altri molto singolari, come le due colossali imprese che la fama gli attribuisce. Durante il suo regno, Qin Shi Huang, insieme al suo ministro Li Si, cercò di introdurre un piano di riforme economiche e politiche, con l’intenzione di unificare una grande nazione frammentata e correggere le pratiche amministrative corrotte del governo che lo aveva preceduto, trasformando un Paese feudale in una nazione federativa. Queste misure gli valsero l’ammirazione delle generazioni future, anche se Tom Ambrose, nel suo sagace studio sulle origini delle tirannie, definisce Qin Shi Huang «il fondatore del primo Stato di polizia nella storia mondiale». Stephen Haw, autore di Beijing: A Concise History, ipotizza che l’ambizione di potere di Qin Shi Huang traesse origine da un’esperienza traumatica vissuta durante l’adolescenza. Dopo la morte del padre, il re Zhuangxiang del Qin, gli oppositori del nuovo monarca, che all’epoca aveva appena tredici anni, fecero girare la voce che il bambino non era figlio legittimo del re, bensì di un mercante, Lu Buwei, amante della concubina reale. In una società che, per influenza dell’etica confuciana, considerava i mercanti la più abominevole delle classi sociali, una simile accusa risultava massimamente obbrobriosa. Quando, dopo essere rimasto sequestrato sotto la tutela di un reggente della corte nella lontana provincia di Zhao, Qin Shi Huang alla fine ascese al trono, la prima azione militare del giovane imperatore fu invadere la provincia dove aveva vissuto quel traumatico sequestro e giustiziarne i governatori. Qin Shi Huang decise di prendere il titolo di Primo Imperatore, in modo che la storia della Cina cominciasse con lui. Un secolo più tardi, dopo la morte dell’immortale imperatore, il celebre poeta Jia Yi scrisse che Qin Shi Huang «mancava di compassione verso i suoi sudditi» e anteponeva i propri interessi politici all’azione della giustizia. «Prendere il potere», scrisse Jia Yi, «è fondamentalmente diverso dal preservarlo». Secondo gli storici Gregory Veeck e Clifton Pannell, la principale passione dell’imperatore era l’ingegneria: ancora oggi, in tutta la Cina, si possono vedere resti della grande rete di canali e sentieri costruiti su ordine di Qin Shi Huang. Le imprese culturali, invece, lo interessavano poco. Il suo ministro, Li Si, lo aveva messo in guardia dal rischio che poeti e filosofi, basandosi sui testi conservati nelle grandi biblioteche del Paese, mettessero il suo governo a confronto con quelli precedenti, confronto da cui sarebbe uscito sminuito. Per evitare tale disonore, Li Si gli consigliò di ordinare la distruzione dei libri anteriori alla sua ascesa al trono, conservando soltanto la complessa burocrazia tecnologica che li catalogava e mettendo tecnocrati a capo delle istituzioni culturali. Borges osserva che quell’impresa di distruzione non era cosa di poco conto: all’epoca la cultura cinese includeva, fra centinaia di nomi illustri, quelli dell’Imperatore Giallo, di Zhuang Zi, di Confucio e di Lao Zi. Sempre seguendo i consigli del suo ministro, Qin Shi Huang prese il controllo della dispotica Scuola del confucianesimo, ordinando che i 460 filosofi di quella confraternita venissero sepolti vivi insieme ai loro libri (ricerche del sinologo Ulrich Neininger sembrano indicare che i condannati erano alchimisti, e non filosofi). Quando, nel XX secolo, dopo la Rivoluzione Culturale, un oppositore cercò di comparare Mao Zedong a Qin Shi Huang, Mao si indignò: «Lui seppellì vivi 460 intellettuali: noi ne abbiamo seppelliti 46.000». Ventiquattro secoli dopo la sua morte, l’ombra ambiziosa di Qin Shi Huang non è completamente svanita dal nostro mondo reiterativo. – (Traduzione di Fabio Galimberti)