il Giornale, 7 gennaio 2019
Sindrome cinese sul lusso
Il lusso nei prossimi mesi rischia perdere ogni scintillio a causa del rallentamento della Cina e della frenata dell’economia globale, senza considerare che la generazione selfie appare finora poco fedele ai brand e più interessata a godere di esperienze anche di alta gamma che non al semplice possesso di articoli firmati.
Il think thank governativo Chinese Academy of Social Sciences ha tagliato le stime di crescita di Pechino per l’anno in corso al 6,3% dal precedente 6,5%. Uno scarto che potrebbe sembrare marginale, ma si traduce in una potenziale voragine nella spesa di 1,4 miliardi di persone. I primi effetti si sono già visti nelle vendite al dettaglio cinesi che, a novembre, hanno registrato il tasso più basso degli ultimi 15 anni (+8,1%), oltre che nei bilanci di chi, come Apple, ha goduto del traino delle classi emergenti dell’ex Impero Celeste. E per il lusso le conseguenze sono onerose posto che, già oggi, un terzo del giro d’affari del settore è costituito da acquisti di consumatori cinesi.
Nonostante tutto però potrebbero non mancare anche sorprese positive grazie a valutazioni convenienti (Kering, che per SocGen ha un potenziale rialzo del 40%, tratta a 15 volte gli utili, rispetto a una media di settore di 21), o a una valida squadra di comando (il tandem Marco Gobetti, come ad, e Riccardo Tisci come direttore creativo in Burberry, a giudizio di SocGen, potrebbe spingere il titolo più in alto del 30%), o alla differenziazione geografica (Michael Kors, che dal 2 gennaio si chiama Capri holding in seguito all’acquisizione di Versace del 2018, ad esempio, è concentrata sulle Americhe da cui deriva il 60% circa delle vendite) e di business (è stato apprezzato il recente rafforzamento di Lvmh negli alberghi di lusso con l’acquisizione di Belmond).
Gli accessori poi, secondo gli analisti di Morgan Stanley, godono di un tasso di crescita doppio rispetto al resto del settore (e soprattutto alle nicchie più vulnerabili come abbigliamento maschile e orologi). E non manca chi, come Berenberg, scommette su un’ulteriore stagione di shopping guidata dai conglomerati francesi Kering e Lvmh con le casse piene di liquidità.
Salvatore Ferragamo, soprattutto dopo la scomparsa di Wanda Ferragamo, è ritenuta una delle magnifiche prede sul mercato, nonostante la famiglia (al 54,2% del capitale) abbia finora sempre smentito la volontà di vendere. In attesa che il nuovo direttore finanziario Alessandro Corsi si insedi al posto di Ugo Giorcelli il prossimo 11 gennaio, non manca chi solleva qualche punto interrogativo sui recenti cambi al vertice che avrebbero dilazionato gli investimenti e, di conseguenza, i tempi del rilancio. Goldman Sachs sul titolo è neutrale a 20,7 euro, mentre Morgan Stanley e Hsbc sono più cauti con obiettivi di prezzo rispettivamente a 16,5 e 16 euro.
Tra i sorvegliati speciali c’è anche Tod’s dopo le grandi manovre di rafforzamento di Diego Della Valle (al 60% del capitale). Sul fronte del business ci si interroga sui costi della nuova strategia concentrata su frequenti capsule collection e prodotti in serie limitata. Per SocGen il titolo è da vendere con un target a 42 euro, Goldman Sachs fissa un prezzo obiettivo a 40,7 euro e Morgan Stanley a 37 euro.
Le speculazioni di M&A finora non hanno toccato Prada (quotata a Hong Kong e controllata dalla famiglia all’80% del capitale) che è apprezzata per la storia di rilancio sostenuta, tra l’altro, da una valida strategia di social media marketing. Per SocGen il titolo è da acquistare fino a 40 dollari di Hong Kong, mentre per Credit Suisse fino a 36 dollari.
Quanto a Moncler, controllata al 26,7% dall’ad Remo Ruffini, è un titolo che riscuote il favore delle banche d’affari (per Hsbc è da comperare fino a 37 euro, per Goldman Sachs fino a 41 euro). A Brunello Cucinelli (controllata al 51% dalla famiglia) infine gli analisti riconoscono una delle esposizioni più difensive dell’industria del lusso ma al momento il consenso è neutrale.