la Repubblica, 7 gennaio 2019
Falsini, L’amico di Coppi
COSIMO CITO INVIATO A FIGLINE VALDARNO ( FI) Dei centosette che divisero la loro strada, i giorni e le vittorie con Fausto Coppi, dei suoi gregari che furono battezzati angeli da chi li vide spendere l’anima per il Campionissimo, Valeriano Falsini è uno dei ventotto ancora in vita. Da novant’anni i suoi occhi azzurri si spalancano sul corso dell’Arno. Il grande fiume, lento e gelato in questi giorni d’inverno, corre a pochi passi dalla sua casetta bassa al Matassino, una frazione di Figline, dal suo giardino, chiuso da un cancelletto verde. Dalla sua poltrona Valeriano saluta chi passa di là, ciclisti soprattutto perché è loro questo lembo di Toscana, e ricorda, e mostra quel che ha del Fausto: molte fotografie, una maglia biancoceleste della Bianchi-Pirelli del 1955, la bicicletta verdeacqua di Coppi al Tour del ’52. «Essere coppiano da queste parti non gli era mica facile». Nel granducato bartaliano che furono la provincia di Firenze e tutta la Toscana, certamente no. Non per caso Falsini è stato, negli anni d’oro, l’unico gregario toscano dell’Airone. Per due anni soli, nel 1951 e nel 1952, nell’era del Fausto Trionfante. Fu un’amicizia e fu una devozione di cui, nonostante il tempo, sono restate salde le viti, tutto è al suo posto nella memoria, come se Fausto non se ne fosse mai andato, in quel modo poi, 59 anni fa. Dal 1960 e quasi ogni anno, per oltre cinquanta, ogni 2 gennaio Valeriano è salito in macchina fino a Tortona e poi in bicicletta ha percorso gli ultimi chilometri del suo personale pellegrinaggio, chilometri che col tempo sono diventati solo metri, l’ultima volta nel 2014, solo la rampa che porta a Castellania, dove sono Fausto e Serse, dove riposano i due fratelli falciati dalla malamorte. «Ero in gara al Giro del Piemonte quando Serse cadde», racconta Falsini, asciugandosi una lacrima, «ero poco dietro di lui, lo accompagnai in albergo, sembrava stesse bene, ma aveva messo la ruota nei binari del tram a Torino ed aveva picchiato la testa. Si era rialzato, “tutto bene Serse?” gli chiesi, mi fece cenno di sì. Il giorno dopo era dentro una bara, vestito di nero. Fausto voleva smettere di correre per il dolore, si sentiva quasi responsabile. Com’erano diversi, non sembravano nemmeno fratelli. Serse era focoso, impetuoso, Fausto più freddo, equilibrato. Serse scalpitava sulla sella come un cavallo selvaggio. Fausto non sembrava nemmeno faticare quando spingeva sui pedali, li accarezzava con quelle gambe leggere, saliva sereno mentre tutti gli altri faticavano come dannati, due colpi e lui andava». Fausto e Valeriano avevano la stessa taglia e una corporatura simile, potevano quindi usare la stessa bicicletta: questa, per il capitano della Bianchi, era un’importante garanzia. In caso di foratura, di rottura, di problemi al cambio, Falsini arrivava e gli passava la sua. S’erano conosciuti nel 1950, Falsini correva nella Girardengo, ma spesso incrociava le strade di allenamento dell’Airone, soprattutto in Liguria. Ad unirli fu tuttavia un colpo di sfortuna. Al Giro di Lombardia, dopo il Ghisallo, un cane entrò improvvisamente in gruppo. Fausto riuscì a non cadere, Valeriano lo centrò in pieno. S’incontrarono a sera, in albergo, e Fausto lo prese in simpatia. Si incontrarono poi a Milano, a novembre, con Zambrini, il direttore della Bianchi. Centomila lire al mese da gennaio a ottobre, come Ettore Milano, come Sandrino Carrea, come Aldo Bini. L’aveva preteso Coppi, Valeriano come tutti gli altri. Durò poco, solo due anni, un’artrosi alla schiena costrinse presto Falsini al ritiro dall’attività. Dopo aver tentato una carriera da attore, Falsini fu elettricista alla Carapelli, lavorò in un mobilificio e infine alla Pirelli. «La morte di Fausto la ricordo come fosse ora, è una cosa che non si dimentica. Pochi mesi prima l’avevo invitato al mio matrimonio, non poté venire però mi mandò una sua maglia e un biglietto. Stava correndo in Africa, dove contrasse la malaria, era ancora impegnato nell’attività. Mi chiamava, mi ha sempre chiamato Valerio. Non riuscimmo a vederci ancora». A Figline Valeriano è “il Pentolaio”, e così sarà scritto sul suo manifesto, da morto, come usa qui. Era, quello del pentolaio, il mestiere di suo padre, che girava il Valdarno con un asino e il biroccio e vedeva pentole, coperchi, stoviglie e sapone. Le battaglie giovanili in bici di Valeriano col padre di Maurizio Sarri, Amerigo, detto il “Parapei” (il chiacchierone), fecero nascere in paese anche una filastrocca: “Signorina dica lei,/ chi va forte, il Ciolli o il Parapei?/ Ma questo è un guaio!/ Va più forte il Pentolaio”. Di questo aneddoto e di mille altri raccontano un libro del 2006, “Valeriano Falsini e il mito di Fausto Coppi” di Stefano Loparco (Masso delle Fate) e un film del 2014, “Mi chiamava Valerio”, di Igor Biddau e Patrizio Bonciani. Il Pentolaio ha due desideri, prima della fine della sua corsa, forse impossibili entrambi. Vorrebbe tornare in bici almeno un’altra volta, salirci per, forse, riandare dal Fausto, in cima a quella rampa. E vorrebbe, ed è pure l’anno del centenario coppiano, riunire tutti gli ultimi angeli, gli altri 27 che per qualche pedalata o molte furono intorno all’Airone e ne furono scudieri. Di questa lista di reduci, da Jan Adriaensens a Victor Wartel, Falsini è il terzo più anziano dopo Raphaël Geminiani, classe 1925, e Giuseppe Minardi, marzo 1928. Vivi per raccontarla, ancora, quella volta, quella vita col Fausto.