Corriere della Sera, 7 gennaio 2019
Le storie di Jan Palach e di Nagy di cui adesso Cechia e Ungheria si vergognano
A meno di un ripensamento dell’ultimo minuto, nella Repubblica Ceca del nazionalpopulista Milos Zeman non ci saranno il prossimo 16 gennaio cerimonie di Stato per rendere onore a Jan Palach in occasione dei cinquant’anni dal suo suicidio. Nel gennaio del 1969, il giovane studente cecoslovacco, ispirandosi al clamoroso gesto compiuto sei anni prima dai monaci buddisti di Saigon, si diede fuoco per protestare contro l’intervento dei carri armati sovietici che il 21 agosto avevano brutalmente messo fine alla stagione liberalizzatrice passata alla storia come «Primavera di Praga».
In Ungheria, un altro leader sovranista, Viktor Orbán, ha fatto di peggio: dieci giorni fa ha ordinato la rimozione della statua di Imre Nagy, il capo del governo di Budapest che nell’ottobre del 1956 si oppose al doppio intervento militare russo nel suo Paese. Nagy, deposto dopo essere stato primo ministro per soli tredici giorni, ai primi di novembre di quello stesso ’56 si era rifugiato nell’ambasciata jugoslava, quindi era stato catturato dal Kgb su ordine del quale nel giugno del ’58, a seguito di un misterioso «processo», era stato condannato a morte. E subito impiccato.
Sia Palach che Nagy furono per decenni oggetto di un’opera di denigrazione da parte delle autorità comuniste sovietiche, cecoslovacche e ungheresi. Nel caso di Palach, i servizi segreti russi fecero l’impossibile per comprometterne l’immagine.
U n recente film di Agniezska Holland, «Il roveto ardente», ha documentato come quel ragazzo che ebbe il coraggio di auto-immolarsi venne dipinto alla stregua di un demente, esaltato, convinto da «agenti occidentali» a simulare il suicidio versandosi addosso un liquido che gli avevano garantito essere non infiammabile. Dopodiché il suo gesto fu imitato da altri giovani e tale circostanza interruppe quel genere di insinuazioni. Ma, nel frattempo, se la Praga rimasta fedele ad Aleksandr Dubcek gli aveva reso solenni onoranze funebri (non certo ufficiali ma con la silenziosa partecipazione di centinaia di migliaia di persone), in Occidente la figura del Palach martire per la libertà aveva stentato ad affermarsi. Soprattutto nella sinistra – non solo quella comunista – che lo aveva abbandonato all’oblio.
Per quel che riguarda Nagy, i sovietici – con l’evidente scopo di infangarne l’immagine – offrirono un’abbondante documentazione di come negli anni Trenta si fosse messo a disposizione dei loro servizi (con il nome di Volodya) macchiandosi di colpe gravissime. È vero, Nagy – come moltissimi comunisti di ogni parte d’Europa, quasi tutti – alla vigilia della Seconda guerra mondiale aveva avuto solidi collegamenti con la macchina del terrore staliniano. Ma dopo la morte di Stalin se ne era emendato assai prima che Krusciov al XX congresso del Pcus (1956) denunciasse i crimini del dittatore georgiano. Nel ’53 – con l’appoggio dell’astro emergente dell’Urss post staliniana, Georgij Malenkov – era stato nominato primo ministro d’Ungheria e, in contrasto con Matyas Rakosi, aveva avviato un’iniziale politica liberalizzatrice. Politica che si era però interrotta nel 1955 quando, a Mosca, Malenkov era stato travolto da Chruscev: dopo la sconfitta del suo protettore Malenkov, Nagy era stato immediatamente deposto e addirittura espulso dal partito. Partito che su due piedi lo riabilitò e lo richiamò alla guida del governo ungherese il 23 ottobre del ’56, giusto in tempo perché incoraggiasse il suo popolo a non rassegnarsi, ipotizzasse l’uscita del suo Paese dal Patto di Varsavia e per dover conseguentemente affrontare due invasioni sovietiche, quella del 24 ottobre e quella del 4 novembre. Per poi fare la fine terribile di cui si è detto.
Molti mesi prima della caduta del muro di Berlino, Palach e Nagy divennero personaggi nel cui nome si ebbero i primi segnali dell’imminente fine del comunismo. Dal 15 al 21 gennaio del 1989 a Praga in piazza San Venceslao si svolse una settimana di celebrazioni della figura di Jan Palach, alla quale parteciparono moltissimi coraggiosi tra i quali il drammaturgo Vaclav Havel, futuro presidente della Cecoslovacchia non più comunista. Il quale Havel alla fine di quei giorni venne arrestato assieme ad altre mille e quattrocento persone. Trascorsero cinque mesi dalla «settimana per Palach» e il 16 giugno a Budapest furono organizzati solenni funerali postumi per Imre Nagy. Anche in quest’occasione scesero in strada migliaia e migliaia di cittadini, tra i quali – paradossi della storia – l’uomo che adesso ha ordinato la rimozione della statua di Nagy: Victor Orbán.
Il senso di quel che sta accadendo in due dei quattro Paesi di Visegrad (nel terzo, la Polonia di Kaczynski, anch’essa in vena di rimozioni storiche dalle identiche caratteristiche, andrà in visita mercoledì prossimo Matteo Salvini a stringere patti in vista delle elezioni europee di maggio) è quello di voler progressivamente cancellare dalla mente di cechi e ungheresi la memoria non solo dei personaggi di cui si è detto ma delle cerimonie a loro dedicate nel 1989. Cerimonie in qualche modo rituali che furono e sono restate a simbolo della transizione dal comunismo a un regime democratico. Senza contare il fatto (o forse mettendolo deliberatamente nel conto) che, accantonata la rimembranza della stagione comunista e del passaggio da questa a quella liberaldemocratica, ai due Paesi resterà solo il ricordo degli anni precedenti. Anni in cui la Repubblica ceca conobbe il brutale Protettorato nazista di Boemia e Moravia di Konstantin von Neurath e Reinhard Heydrich (il «boia di Praga» ucciso il 27 maggio del ’42 con uno spettacolare attentato ordito dalla resistenza cecoslovacca). Mentre l’Ungheria sperimentò il regime autoritario dell’ammiraglio Miklos Horthy e, dal ’44 al ’45, quello delle spietate Croci frecciate di Ferenc Szalasi. Precedenti ingombranti per i sovranisti dell’Europa di oggi. Imbarazzanti, ammesso che – nell’area della «democrazia illiberale» – i seguaci di Zeman e Orbán abbiano una qualche sensibilità per questi temi. Anzi, peggio, molto peggio che imbarazzanti.