La Lettura, 6 gennaio 2019
Intervista a Rebecka Kärde, svedese, 27 anni, nuova giurata del Nobel per la Letteratura
Rebecka Kärde, svedese, critica letteraria, 27 anni, è stata chiamata a far parte della giuria per l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura 2019 e 2020. Con lei altri quattro studiosi esterni. Il quintetto si unirà al comitato storico oggi composto da cinque giurati eletti a vita e selezionati tra i diciotto membri dell’Accademia svedese fondata nel 1786 da Gustavo III. Nel 2018 il Nobel per la Letteratura non è stato assegnato a causa di uno scandalo sessuale e finanziario che ha coinvolto il regista e fotografo Jean-Claude Arnault (marito della poetessa Katarina Frostenson, membro dell’Accademia dal 1992), accusato da diciotto donne di molestie e coinvolto in finanziamenti poco chiari al suo club culturale di Stoccolma. Lo scandalo ha provocato una serie di dimissioni (a partire da quelle di Frostenson), che ha travolto la reputazione dell’Accademia.
Dal 1901, anno di nascita del Nobel per la Letteratura, il Premio è saltato sette volte (1914, 1918, 1935, 1940, 1941, 1942, 1943), per motivi legati ai due conflitti mondiali e in un caso – nel 1935 – per mancanza di candidati ritenuti all’altezza. La sospensione del 2018, legata anche al tentativo di recuperare un’immagine adeguata, fu annunciata dall’Accademia il 4 maggio per cercare di «ricreare la fiducia persa» e «impegnare un maggior numero di membri nella selezione del vincitore». Questo impegno s’è tradotto nella creazione di una giuria esterna (il contratto è di due anni), che coinvolge cinque esperti svedesi di letteratura. In questi mesi si lavora – al di là delle vicende giudiziarie – alla ricostruzione della reputazione dell’Accademia che decide il vincitore del premio letterario più prestigioso del mondo. Per questo la Fondazione Nobel, in veste di organo di controllo, sta aspettando a sciogliere la prognosi e dare ufficialmente il via al Premio. Nell’intervista R ebecka Kärde spiega come funzionano le nuove regole.
«Q uando mi è arrivata la telefonata di Anders Olsson, l’attuale segretario ad interim dell’Accademia svedese, che mi chiedeva se volevo far parte della giuria per il prossimo Premio Nobel per la Letteratura, ero sbalordita, non sapevo nemmeno che fossero previsti un comitato esterno, una giuria nuova. Dopo un po’, ovviamente, ero anche felice di essere stata scelta, ma, per carattere, mi riesce sempre difficile celebrare, festeggiare il successo: penso immediatamente ai possibili problemi o alle eventuali complicazioni. In questo caso specifico, mi riferisco principalmente al caso di Jean-Claude Arnault. Quanto è grave la situazione? I membri dell’Accademia si assumeranno davvero la loro responsabilità? Sono questi i primi pensieri che mi sono venuti in mente, dopo quella telefonata». Rebecka Kärde, svedese, 27 anni, «pazza per i cani», con idee molto chiare sul mondo della cultura, di mestiere critica letteraria per la testata più prestigiosa del suo Paese, «Daghens Nyheter», studiosa di filologia classica all’Università Humboldt di Berlino, città dove vive («bene») da quattro anni, è stata invitata a far parte della giuria per l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura. All’inizio del 2018 aveva vinto un premio dell’Accademia svedese legato alla critica letteraria «tradotto» in un assegno di centomila corone, poco meno di diecimila euro. Nell’intervista che segue Rebecka Kärde svela a «la Lettura» i nuovi meccanismi del Nobel e racconta le sue passioni letterarie.
Rebecka Kärde, ma lei poi, alla fine, ha accettato subito l’offerta o si è presa del tempo?
«No, non ho accettato subito. Ho chiesto un giorno di tempo per pensare. Anche se, in fondo, sapevo quasi già subito che avrei detto di sì».
Quindi non ha festeggiato il suo nuovo incarico?
«Eh, eh... – come dicevo – non molto all’inizio».
Che effetto le fa essere la più giovane giurata?
«Mi fa piacere, ovvio. Ma ovviamente sono anche preoccupata. Alla mia età, 27 anni, è quasi impossibile essere colti, istruiti e preparati come qualcuno che ha lavorato – che so – per decenni come critico o scrittore. Anche gli altri membri della giuria lo sanno e probabilmente, proprio per la questione della mia età, non è che si aspettino chissà cosa...».
Ma, in linea di massima, si sente sicura di sé, di affrontare una situazione del genere?
«Certo. Una ventisettenne, di preparazione relativamente buona, può forse essere paragonabile a un novantenne geniale, con molti più libri ed esperienza alle spalle ma con l’inevitabile stanchezza dell’età...».
È stata l’unica nuova nominata?
«No, hanno costituito una giuria esterna, composta da me e altre quattro persone. Insieme andiamo ad aggiungerci alla giuria storica, composta oggi da cinque persone nominate a vita».
Cinque interni e cinque esterni dunque, per quanti anni?
«Noi cinque esterni per due anni, 2019 e 2020».
Il Nobel 2018, non aggiudicato a causa dello scandalo legato a Jean-Claude Arnault, che fine farà?
«Verrà dato insieme a quello del 2019. Al momento la decisione presa è questa. Poi se cambierà non lo so...».
La sua vita è cambiata?
«Non la vita di tutti i giorni. Anche se, devo ammettere, è la prima volta in vita mia che mi chiedono interviste. Mi è pure capitato di essere riconosciuta alle feste. Questa è un’esperienza strana e interessante al tempo stesso, ma credo e spero che tutto finirà presto».
Com’è la sua vita quotidiana?
«Quasi ogni giorno frequento seminari all’università. E quando non sono lì, sto molto a casa con il mio compagno e il nostro cane Florian, oppure esco con gli amici. Per mantenermi in salute, e soprattutto per avere una lucidità mentale accettabile, vado a fare jogging ogni giorno, oppure mi alleno in palestra. E ovviamente leggo, leggo molto. Mi sembra una vita normale».
Cosa intende quando dice che legge molto?
«Di solito leggo almeno un paio d’ore al giorno, ma dipende davvero molto dai momenti, dalle fasi della mia vita. Posso dire che in media leggo circa cinque libri alla settimana, incluse anche raccolte di poesie. Quando vivevo a Stoccolma, abitavo proprio accanto alla Biblioteca di Stato… E lì, per forza di cose, leggevo di più».
Si ritiene una persona metodica?
«A volte. Non sempre. Cerco di essere metodica, soprattutto per quanto riguarda l’apprendimento delle lingue, ma in realtà, per il resto, sono forse troppo spontanea e mi piace anche divertirmi. Per questo, credo, sarei una ricercatrice forse non eccelsa: mi manca semplicemente la pazienza necessaria».
Scrive anche poesie. Che cosa rappresentano per lei?
«La poesia può essere incredibilmente incolore e convenzionale. Ma, in alcuni casi, quando è davvero eccelsa, sveglia il linguaggio dal suo sonno quotidiano e gli fa spiccare il volo. Niente è più meraviglioso per me».
Una poesia davvero importante per lei è...
«Non una singola poesia, ma quindici – il ciclo The Butterfly Valley della danese Inger Christensen. È stata tradotta anche in italiano da Bruno Berni con il titolo La valle delle farfalle (Donzelli, pp. 64, € 14, 2015, ndr )».
Lei è figlia di due bibliotecari. Che genere di influenza hanno avuto i suoi genitori sulla sua formazione, sul suo amore per la letteratura?
«I miei genitori non sono intellettuali. Ma fin da bambina mi hanno fatto sentire che la cultura è qualcosa di grande e persino di speciale, e che io, come tutti, avevo il diritto di usufruirne. Loro non hanno mai considerato strano che la loro figlia visitasse un museo o guardasse un film non americano. E anche se i miei genitori non conoscono scrittori o intellettuali, mi hanno sempre incoraggiato, senza pretendere mai che mi trovassi un “vero lavoro”. Loro leggono per il piacere di leggere. Ma non parlano poi del libro. Questa è la differenza fra me e loro».
Lei è critica letteraria per il giornale più importante della Svezia, «Dagens Nyheter». Come ha iniziato?
«Collaboro con il “Dagens Nyheter” da circa tre anni, ma ho iniziato prima, a 21 anni, con un altro giornale (“Arbetaren” / “The Worker”), dove però a un certo punto smantellarono la loro sezione culturale. Allora parlai con un amico che lavora al “Dagens Nyheter” da molto tempo e ho cominciato a scrivere un paio di testi di prova. Essere un critico non è un mio sogno d’infanzia – quale bambino può avere un sogno del genere... – ma sapevo già, almeno da quando avevo 16 anni, che volevo in qualche modo scrivere, occuparmi di cultura e che avevo le doti per realizzare questo desiderio».
Che genere di critico letterario è?
«Cerco sempre di essere il più concreta possibile. Cosa c’è esattamente nella pagina? Come lavora questo testo, come e perché? Sono fortemente orientata verso il testo. Con questo però non voglio dire che io non abbia anche una prospettiva, una visione letterario-sociologica o politica ben precisa. La letteratura non può mica essere concepita soltanto come un fenomeno a sé stante, ma deve essere vista nel suo insieme, come una cosa che in qualche modo entra, influenza e corregge lo Zeitgeist, lo spirito del suo tempo».
Qual è il primo libro che ha recensito?
«I Love Dick di Chris Kraus. Uno dei miei libri preferiti».
L’ultimo invece?
«Sto scrivendo alcune recensioni di autori svedesi».
È interessata all’attualità, alla cronaca?
«In genere preferisco stare lontana dai dibattiti, dove tutti vogliono dire la loro, ma a volte mi arrabbio talmente tanto che non riesco a controllarmi... per esempio ho discusso in pubblico di temi legati alla violenza e allo stupro».
Quando perde la pazienza?
«Succede quando qualcuno si lamenta del fatto che ogni situazione, anche innocente e leggera, legata al sesso, fa subito gridare in maniera esagerata allo stupro... beh, lì perdo la pazienza. O quando, come è accaduto, tanti, difendendolo, sostengono che in realtà Jean-Claude Arnault non sapeva cos’aveva fatto...».
Che opinione s’è fatta dello scandalo?
«Tutta la faccenda è molto penosa per l’Accademia, ed è anche giusto che sia così. Posso anche dire però che ho avuto l’impressione che lo abbiano anche capito».
Qual è il periodo della letteratura che la interessa, che la stimola maggiormente?
«Difficile rispondere. Sono solidale e simpatizzo con autori che non si sentono a proprio agio nel loro tempo e che si distinguono dagli altri in un modo o nell’altro, come Witold Gombrowicz ed Emily Dickinson».
La letteratura contemporanea?
«Anche la modernità mi affascina naturalmente: l’eccitazione, la speranza e la simultanea catastrofe, la sensazione che tutto sia nuovo e possibile».
Lei studia però filologia classica.
«Sì. Sono molto interessata all’antichità greca, al periodo ellenistico in generale e all’emergere di quella cultura letteraria che è stata trasmessa alle generazioni successive».
Ha dichiarato di amare Thomas Bernhard. Cosa le piace di più della sua scrittura e quale pensa sia il suo libro più sottovalutato?
«Adoro il suo temperamento e la coerenza. Scrive, possiamo dire, sempre lo stesso libro. Con Bernhard l’esagerazione, l’eccesso, funzionano come una sorta di tecnica della verità dell’arte letteraria: attraverso la sua rabbia e la sua mortificazione, che sono in parte irresponsabili, il lettore percepisce tutto come vero, indispensabile. Il suo libro più sottovalutato? Direi Beton (Cemento, edito in Italia nel 2014 da SE con la cura di Luigi Reitani, pp. 184, e 21, ndr)».
Accanto a Bernhard lei menziona Elias Canetti, chi altro aggiungerebbe?
«Inger Christensen, la poetessa che ho citato prima, e che è probabilmente il mio autore preferito. Ma anche Konstantinos Kavafis, Ingeborg Bachmann e John Ashbery sono tra gli autori che più amo. Devo aggiungere naturalmente anche i grandi romanzieri del XIX secolo, come Honoré de Balzac e Ivan Turgenev».
Cosa pensa dei Nobel a Bob Dylan e Dario Fo?
«La scelta di Bob Dylan è stata una tipica scelta generazionale, incomprensibile però per tutti coloro che, come me, hanno meno di quarant’anni. Non condivido l’opinione secondo la quale la sua opera debba essere considerata come una continuazione moderna della tradizione poetica dei bardi. Di Dario Fo, sfortunatamente, ho letto solo alcune cose. Non sono né totalmente convinta, né totalmente critica sul suo conto».
Si è trovata sempre d’accordo con le decisioni sui Nobel per la Letteratura?
«Niente affatto! Ma fa parte del gioco. È pure divertente in qualche modo innervosirsi con chi ha vinto e non ci convince».
Sappiamo che lei è anche una traduttrice dall’inglese e dal norvegese. Dal suo punto di vista, la figura del traduttore è tenuta nella giusta considerazione nel mondo dell’editoria?
«No, sicuramente! Soprattutto quando si tratta di traduzioni davvero complicate. La traduzione non è meno di un’arte. In realtà non abbiamo molte persone in grado di dominarla e creare qualcosa di originale da essa. I traduttori meritano il massimo riconoscimento. Un riconoscimento che, si sa, di rado ottengono».
A quali autori italiani è interessata?
«Italo Calvino. Appartiene a quegli autori che mi hanno folgorata, molto presto, da giovanissima. Continuo a pensare che sia uno scrittore fantastico e di lui ho letto tutto quello che è stato tradotto. Mi piacciono molto anche Giuseppe Ungaretti e Italo Svevo. E aggiungo il nome di Antonio Tabucchi, che ha scritto cose davvero meravigliose, come per esempio Notturno indiano (Sellerio, 1984, ndr)».
Il suo piano di lavoro per i prossimi Nobel? Come funziona ora la faccenda? Che cosa deve fare?
«All’inizio di febbraio ci verrà consegnata una lunga lista, a cui ogni membro può aggiungere il proprio candidato preferito. Poi via via i nomi vengono scremati e da una lista che può contenere venti nomi, se ne crea un’altra di cinque-sette candidati. Alla fine di maggio inizieremo a studiare la short-list finale e rileggere attentamente gli autori compresi al suo interno. Alla fine di settembre bisogna prendere una decisione. Il mio, il nostro compito principale è dunque quello di leggere, leggere, leggere».
Lei, in quanto membro della commissione giudicatrice, ha un codice professionale che deve rispettare. Cosa non può dire?
«Non possiamo rivelare i nomi dei candidati e quelli dei vincitori. È l’unica richiesta, anche da un punto di vista realistico e pragmatico, che ci possono fare. Credo».
Qual è il suo rapporto con i social, Facebook, Instagram, Twitter? La cultura può essere diffusa attraverso i social network?
«Ho un account Instagram. E ce l’ho per un unico motivo: caricare le foto, quelle venute bene, del mio cane. Non uso per niente Facebook e Twitter. Non mi interessano proprio. Anzi, non solo non mi interessano, ma credo anche che il graduale smantellamento dei nostri poteri collettivi di concentrazione sia molto, molto dannoso. È impossibile leggere un testo complesso e contemporaneamente guardare il telefonino. Ecco perché ho acquistato un Dumbphone (letteralmente “telefonini stupidi”, ndr), che permette unicamente di inviare messaggi ed effettuare chiamate. La concentrazione è una merce fresca, va mantenuta per bene e con cura».
Che cosa studia esattamente alla Humboldt?
«Filologia classica, con particolare attenzione agli studi greci».
Ha deciso di vivere a Berlino prima e poi si è iscritta alla Humboldt o viceversa?
«Quando ho iniziato a studiare alla Humboldt, vivevo già a Berlino da circa quattro anni».
Quali sono i suoi interessi musicali e cinematografici?
«Amo il cinema e in realtà scrivo anche recensioni di film. La musica è stato il mio primo amore, da adolescente ne ero totalmente ossessionata. Oggi la vivo più come un hobby, ma raramente scopro cose nuove e interessanti. E questo mi dispiace davvero».
Si sente felice?
«Non mi sento infelice. E questo è già abbastanza».