La Lettura, 6 gennaio 2019
L’ibernazione possibile
Una cosa accomuna 2001: Odissea nello spazio, Alien e Interstellar al Woody Allen de Il dormiglione, o a qualche puntata della serie tv Black Mirror: comunque si immaginino i nostri viaggi futuri, siano oltre i confini dello spazio o del tempo, li faremo dormendo. Meglio, in ibernazione, cioè in quello stato di rallentamento metabolico più noto come letargo. Via dalla fantascienza, le ricerche degli ultimi 15 anni suggeriscono che il torpore artificiale umano sia non solo possibile, ma aiuterebbe la medicina anche sul nostro pianeta. Alla prospettiva lavorano una decina di laboratori raccolti nel Topical Team on Hibernation and Torpor dell’Agenzia spaziale europea (Esa) e il progetto di ricerca Space Radiation Shielding (Spare), finanziato a ottobre dal Miur con 1,43 milioni di euro e guidato dall’Istituto nazionale di Fisica nucleare in collaborazione con il Centro Fermi e l’Agenzia spaziale italiana. In occasione dell’uscita del suo A mente fredda (Zanichelli), «la Lettura» ha approfondito l’argomento con Matteo Cerri, ricercatore in Fisiologia dell’Università di Bologna e membro del topical team dell’Esa.
Anzitutto, che cos’è l’ibernazione?
«È quella condizione più nota come letargo, uno stato fisiologico naturale per alcuni mammiferi capaci di entrare in stand by, come fanno certe automobili che al semaforo spengono il motore rimanendo accese. Comporta un consumo energetico minimo, che consente la sopravvivenza in periodi in cui manchino le risorse. Lo scoiattolo artico trascorre mesi mantenendo una temperatura corporea di -2° centigradi. Al risveglio, sta meglio di prima».
Conservare energia in ambienti o periodi ostili?
«Rimanendo vivi. Un aspetto che differenzia l’ibernazione dal congelamento o dalla crioconservazione, processi che implicano l’interruzione definitiva del metabolismo e quindi la morte».
Perché e in quali ambiti oggi si studia l’ibernazione?
«L’interesse iniziale verteva sulla possibilità di preservare alcuni tessuti umani in condizioni di scarsità di risorse. Immaginiamo che il nostro cervello sia come lo scoiattolo e a un certo punto debba affrontare il suo inverno, per esempio un arresto cardiaco. Se potesse ibernarsi sopravvivrebbe o, almeno, ridurrebbe le conseguenze di un trauma potenzialmente letale».
Gli studi si sono poi estesi?
«Sì, e si è notato che nel letargo il cervello presenta molte caratteristiche osservabili nel morbo di Alzheimer e in altre malattie neurodegenerative. La cosa interessante è che a poche ore dal risveglio tutto torna normale. C’è quindi una finestra in cui la plasticità sinaptica è elevata: una situazione che permetterebbe di modulare l’attività di diversi circuiti neuronali, da quelli della memoria a quelli della dipendenza. È come se potessimo aprire un microprocessore per modificarne i circuiti senza danneggiarlo. Non solo: le ricerche hanno evidenziato effetti benefici del letargo anche sintetico, cioè prodotto farmacologicamente, sulla produzione da parte del nostro sistema immunitario di molecole anti infiammatorie. Se si considera che lo shock settico, in Occidente, oggi causa metà dei decessi in terapia intensiva, l’importanza dell’indagine diventa chiara».
Che cosa c’entra lo spazio?
«Come dimostrano gli animali, il letargo preserva struttura ossea e tono muscolare anche in lunghi periodi di immobilità. Se le nostre ipotesi trovassero conferma, l’ibernazione sintetica di un equipaggio permetterebbe di ridurre le risorse a bordo e di rallentare il processo di decalcificazione ossea innescato dalla microgravità, quello per cui lo scheletro degli astronauti, poco utile in assenza di peso, viene progressivamente smantellato dall’organismo. Soprattutto proteggerebbe dalle radiazioni cosmiche, intense e pericolose al di fuori del campo magnetico della Terra, che fa da schermo».
È l’ambito del progetto «Spare»?
«Esatto: l’esposizione alle radiazioni è un problema irrisolto nelle missioni di lunga durata, come saranno quelle su Marte o sulla Lunar Orbital Platform-Gateway, la base in orbita cislunare prevista fra pochi anni. Alla questione oggi sono dedicate tre linee di ricerca: una riguarda gli scudi passivi, materiali che siano in grado di isolare l’equipaggio; la seconda gli scudi attivi, cioè i campi magnetici che deviino i raggi cosmici; l’altra ipotizza il letargo, che dagli anni Settanta sappiamo rendere gli animali ibernanti particolarmente resistenti alle radiazioni. Una capacità che abbiamo confermato replicabile anche nel caso del torpore sintetico e di cui pubblicheremo una documentazione preliminare fra poche settimane sull’“International Journal of Molecular Sciences”».
Con torpore sintetico intende la possibilità di indurre artificialmente l’uomo al letargo?
«Attraverso particolari trattamenti farmacologici. Come ogni ricerca è una questione di fondi e personale, ma ipotizzando di avere entrambi, fra uno o due decenni ibernare un astronauta sarà fattibile. Oppure avremo la certezza di non poterlo fare. Comunque un risultato».
Nel suo «A mente fredda» cita diverse conferme. Che cosa sapete per certo oggi?
«Premesso che nella ricerca la prudenza è d’obbligo, abbiamo decifrato alcuni dei meccanismi attraverso i quali il cervello innesca il processo di sospensione metabolica. Sappiamo anche che certi farmaci producono effetti del tutto simili a quelli del letargo. Stiamo lavorando per mettere insieme le due cose, per capire come e dove agiscano queste sostanze e per trovarne di più efficaci e sicure».
Il libro menziona anche applicazioni in ambito oncologico.
«Sottolineo con chiarezza che siamo ancora in una fase teorica, ma non è da escludere che in stati di torpore sintetico le patologie tumorali possano rivelarsi più vulnerabili ai trattamenti. Studi anche datati dimostrano come i tumori smettano di crescere in stati di ibernazione. Nei prossimi anni si proverà a fare chiarezza. Così come si indagherà l’uso dell’ibernazione sintetica nei trapianti, per prolungare il tempo di vita degli organi o del donatore, ma anche del ricevente. Oggi, negli Stati Uniti, 20 persone al giorno muoiono in “lista di attesa”. È un dato che potremmo ridurre».
Le vostre ricerche sull’ibernazione trovarono una conferma sperimentale nel 2013, giusto?
«Quell’anno riuscimmo a ingannare, diciamo così, un piccolo gruppo di neuroni di un ratto, specie non ibernante, inducendo uno stato di torpore molto simile a quello naturale dei criceti. L’esperimento capitò nel momento giusto: dopo l’iniziale scetticismo, nel 2014 l’Esa ritenne le ricerche sufficientemente mature e istituì il topical team internazionale coinvolgendo il nostro laboratorio. Pochi mesi fa la Nasa ha ufficializzato studi nello stesso ambito. La strada è lunga, ma crediamo sia quella giusta».