La Lettura, 6 gennaio 2019
Le staminali vegane
S’intitola La seduzione della carne un interessante e inquietante film di Julio Bressane, presentato nello scorso agosto a Locarno in concorso nella sezione «Signs of life». La protagonista Siloè (la bravissima Mariana Lima), distesa su un divano, parla con un pappagallo e ricorda immagini di luoghi incantati, foreste e spiagge dove pescatori tirano le reti con gli stessi eterni gesti da tempi immemorabili e con le stesse movenze recuperano il cibo. Il piano sequenza illumina un tavolo su cui è poggiata una bistecca che, animandosi improvvisamente, assale Siloè sino a inglobarla in una metaforica immagine della carne divoratrice. Julio Bressane ha chiarito che «il film traduce un incubo, un incubo reale, oscuro, in cui si configura un intero continente, con le sue foreste, le sorgenti, l’aria, il suolo: tutto appare devastato, distrutto, divorato dal traffico della carne, della carne cruda dei milioni di animali abbattuti ogni giorno, enormi pezzi di carne da braccare, commercio serpeggiante e silenzioso in tutto il territorio. Incubo spaventoso».
In effetti la realtà dei numeri è da incubo. La sola industria della carne ha causato la perdita di più del 30 per cento del mantello vegetale della più grande foresta e riserva di acqua potabile del pianeta, l’Amazzonia; sono circa 100 i milioni di capi di bestiame che devastano suolo, aria e acqua in Brasile. A livello internazionale l’allevamento degli animali è il maggiore fattore di disturbo ambientale: produce il 15 per cento dei gas effetto-serra, ben più di quelli emessi dal settore dei trasporti. La principale fonte di queste emissioni è il metano prodotto dalle fermentazioni intestinali dei bovini.
Senza contare la perdita di biodiversità causata dalla deforestazione, l’impatto drammatico è sul consumo delle acque. La produzione di un chilo di carne rossa «costa» 15-20 mila litri di acqua, viceversa quella di un chilo di cereali necessita di soli mille litri. Ora, considerando che nel 2050 il pianeta Terra sarà abitato da circa 10 miliardi di persone, si suppone che la domanda di carne crescerà di ben il 70 per cento da qui ad allora. Un simile scenario invoglia a sostituire la carne con alternative vegetariane, anche se solo pochi consumatori sono disposti a farlo (anche in considerazione del più alto valore energetico della carne).
Un grande aiuto per l’ambiente, e per la soddisfazione di chi non riesce a rinunciare alla carne, è oggi offerto dalla biologia delle cellule staminali. Questa disciplina, da almeno un decennio, permette di riprogrammare geneticamente cellule terminalmente differenziate (ad esempio, cellule muscolari o della pelle) a staminali embrionali che, moltiplicate all’infinito in un appropriato mezzo di coltura («brodo»), vengono differenziate nei tipi cellulari di interesse, utili non solo per la medicina, ma anche per la scienza della produzione alimentare (un messaggio per i maturandi: nel nostro Paese diverse sedi universitarie offrono ottimi corsi di laurea in Scienze zootecniche e tecnologie delle produzioni animali). Come avviene tutto ciò? Ebbene, in una prima fase le cellule staminali vengono coltivate e fatte proliferare in specifici bioreattori (cioè incubatori) sino a determinate concentrazioni; in una seconda fase, l’aggiunta di specifici fattori di differenziamento a mezzo di coltura inducono le staminali a differenziarsi in cellule muscolari e in miotubi che crescono sino a formare muscoli scheletrici.
Il tipo di carne prodotta dipende dalle condizioni e dai cicli di lavorazione e l’aggiunta di succo di barbabietola rossa, zafferano e sale conferiscono il giusto colore e un sapore pressappoco simile. È così possibile la produzione diretta di carne e burger in laboratorio, «bistecche» pronte per la vendita, i cosiddetti «eco-friendly burger», grazie alla moltiplicazione delle cellule embrionali ottenute dalla riprogrammazione genetica di una cellula della pelle o del muscolo.
La produzione di proteine animali da staminali coltivate in massa in «biofattorie di colture di cellule animali» (magari recuperando l’archeologia industriale legata alla produzione di beni ormai dismessi) pare una provocazione intellettuale per i vega-vegetariani-fruttariani e simili (secondo il Rapporto Italia Eurispes 2018, circa 4 milioni di italiani si dichiarano vega-veg, il 6-7 per cento) che dovranno interrogarsi se continuare a mantenere la propria posizione, oppure ripensarci e godersi il piacere di affondare i denti in un morbido burger che non avrà mai visto nella sua filiera produttiva un solo animale costretto, in batteria o in un piccolo campo, a crescere e vivere per essere poi ucciso. Anche gli attivisti dei movimenti animalisti troveranno soddisfazione vedendo accolte le proprie istanze ideologiche. Ed è auspicabile che si possa porre fine alle pratiche più cruente della macellazione «religiosa». Non vi è morte alcuna nel piatto di un «buon» burger di carne artificiale, carne cellulare, carne in vitro, carne pulita, eco-friendly burger: sarà interessante trovarle un nome adatto! Alcuni impiegano il termine «postburger» per rendere omaggio al biologo Mark Post (Università di Maastricht) che per primo ha prodotto un burger in vitro.
A sostenere questa svolta vi è poi un rapido richiamo di biochimica: solo uno scarso 10 per cento del cibo assunto dagli animali da macello diviene carne e per alimentare i circa 4 miliardi di animali che trasformiamo in carne da alimenti impieghiamo più del 50 per cento dei cereali prodotti e oltre il 75 della soia. La produzione su larga scala di carne in vitro assicura maggiori pratiche igieniche, minori contaminazioni batteriche, nessun rischio di «mucca pazza» o influenze aviarie e diffusione di antibiotico-resistenza, un minore consumo energetico e una produzione di gas a effetto serra significativamente minore rispetto alla produzione animale di tipo intensivo. Il fatto di non impiegare suolo comporta che questo può essere destinato a produzioni agricole o ai necessari programmi di riforestazione, con grande beneficio per l’ambiente. La biologia sintetica con il lab grown burger sfida la bistecca di seitan ed altri aspetti del cibo dedicato ad una ristretta nicchia di aristocratici frequentatori degli scienziati-chef stellati della cucina molecolare danese. E chiede a tutti noi di riflettere sulla sostenibilità della produzione di carne nel prossimo futuro. Se ancora assistiamo con un colpevole e tacito assenso alla distruzione di foreste tropicali per la produzione intensiva di allevamenti animali (e di tante monocolture vegetali, di caffè in primis) dobbiamo ora interrogarci sulla produzione di carne in vitro, un aspetto probabilmente imprescindibile del nostro vivere nell’Antropocene.
Non pare ragionevole infatti l’assenza di proteine animali nella dieta, poiché provoca forti carenze di triptofano (ricordiamo la pellagra), uno degli amminoacidi essenziali, necessario alla sintesi dei composti della vitamina B. È probabile che nel futuro mangeremo la carne dei bovini solamente a Natale, o comunque preferibilmente in specifiche occasioni (il tacchino negli Usa per il giorno del Ringraziamento o il capibara in Venezuela a Pasqua. Per i carnivori massimalisti: si può mangiare carne rossa a Pasqua poiché la religione cattolica permette di cibarsi, durante il periodo pasquale, di animali che vivono in acqua, ed il capibara vi sta sempre immerso).
Le principali preoccupazioni dei consumatori sono rivolte ad aspetti sanitari, di gusto e di prezzo, anche se plaudono ai benefici per la salute degli animali e dell’ambiente. È ragionevole ritenere che nel prossimo futuro la carne cellulare della bioeconomia post-animale rivoluzionerà, da un lato, l’industria alimentare, ma dall’altro non porterà benefici ai piccoli allevatori; troverà certamente mercato tra la popolazione in via di urbanizzazione nelle grandi città del Terzo e Quarto Mondo, oltre probabilmente ad una quota, ci si augura significativa, di vega-vegetariani del mondo occidentale.
Diverse compagnie commerciali quali la Memphis Meats e l’israeliana Super Meat (finanziatori magnati come Sergey Brin, cofondatore di Google, Richard Branson, fondatore di Virgin Group, Bill Gates e il colosso dell’industria alimentare Cargill), hanno già sviluppato una serie di prodotti a partire da cellule staminali di bovino, maiale, tacchino, pollo, anatra e pesci di varie specie (nel settore ittico è attiva la Finless Food per la produzione di gamberi), oltre a ostriche del Pacifico: portano sul mercato burger di bovino, polpette, crocchette di pollo e foie gras. Anche Hampton Creek Foods di San Francisco (già nota per Beyond Eggs, uova e maionese da proteine vegetali) è entrata nel settore. È bene però non confonderle con le imprese che producono cibi somiglianti ai derivati da animali a partire solo da proteine vegetali (Beyond Meat è la capofila ma anche Clara Food, New Wave e Impossible Foods).
Si dice che Winston Churchill già nel 1931 si chiedesse quale fosse il senso di allevare un intero animale anziché produrre solo cosce e petto, le parti che mangiamo: ebbene oggi sarebbe molto soddisfatto, come pure i futuri astronauti che potranno mangiare un buon burger nello spazio. Per chi volesse già stupire gli amici vega-vegetariani ed animalisti suggeriamo un bellissimo libro di curiose ricette illustrato magnificamente: The In Vitro Meat Cookbook di Koert van Mensvoort e Hendrik-Jan Grievink (Bis, 2014). Molto utile, visto che tra breve avremo in casa un altro elettrodomestico simile a quello per addizionare l’acqua di anidride carbonica, il produttore di carne ecologica... Basterà comperare le cartucce di brodo di coltura per staminali!