La Lettura, 6 gennaio 2019
Riprendiamoci i dati che internet ha rubato, parla Eli Pariser
Può essere rassicurante, spiegava Eli Pariser nel 2011 nel libro Il Filtro (il Saggiatore), accendere il computer e trovarsi in un’isola felice in cui tutti la pensano come te: stesse idee politiche, stessa fede religiosa, stessi gusti in cucina. Non ti devi mai confrontare con chi la pensa diversamente. Nel dicembre 2009 Google aveva cominciato a «filtrare» i risultati delle ricerche, a seconda delle abitudini degli utenti. Facebook, Apple, Microsoft erano a caccia di dati degli utenti in base ai quali personalizzare «l’esperienza». Ma Pariser fu tra i primi a notare che vivere in una «bolla» ha un impatto sulla democrazia. Dietro le quinte, inoltre, una schiera di aziende stava mappando i nostri dati personali, dalle preferenze politiche agli acquisti online, per venderli agli inserzionisti. Ma un altro mondo (sui social) è possibile?
In questi sette anni ci sono state enormi violazioni della privacy da parte dei giganti del web, fake news e interferenze russe nel voto in Usa. Se l’aspettava?
«Non avevo previsto che ci fossero adolescenti macedoni pronti a far soldi con le fake news o hacker russi che avrebbero utilizzato la personalizzazione delle notizie come un’arma. La centralità di queste piattaforme nelle nostre vite è incredibilmente aumentata. Nel 2011 Facebook era importante per i giovani, ma non era una fonte primaria di notizie per miliardi di persone. Però, in questi anni è cresciuta anche la consapevolezza sul funzionamento del mondo digitale, incluso il fatto che ci sono algoritmi che personalizzano le informazioni. È uno sviluppo molto positivo, ma può portare anche a una certa esagerazione nell’attribuire alla “bolla” i fenomeni che ci circondano. Se elenchiamo le ragioni per cui Donald Trump ha vinto le elezioni, per esempio, non metterei internet al primo posto, e nemmeno al secondo o al terzo. La demagogia esisteva già molto prima dei social media».
Mosca ha personalizzato la diffusione di fake news: mirando ai conservatori per convincerli a votare Trump, ma anche agli afroamericani per dissuaderli dal recarsi alle urne. Colpisce il divario tra la sofisticazione russa e l’incapacità americana di difendersi.
«Gli obiettivi sono bersagli facili, con poche difese dal punto di vista della gente e delle infrastrutture. Non è necessario essere particolarmente abili. Una delle caratteristiche delle nostre società aperte è che è facile individuare le linee di frattura e le sottoculture, capire come possono essere manipolate».
C’è stata una sistematica violazione della privacy. I dati personali venduti e usati per campagne politiche, da Trump alla Brexit. Facebook avrebbe condiviso con 150 aziende i nostri nomi, amici, contatti, messaggi privati. Chi usa i social può essere tutelato?
«Si va verso una sorveglianza di massa, ma esistono anche tendenze in direzione opposta. Non c’è ragione, sul piano tecnologico, per non immaginare un paradigma diverso, in cui le persone abbiano più controllo sui loro dati. Tra altri sette anni potremmo guardare a quest’epoca e sorridere del fatto che abbiamo permesso a una manciata di corporation di tenere in pugno i dati di tutti, come se non ci fosse alternativa, mentre si possono ottenere gli stessi risultati lasciando alla gente molto più controllo. Se alzassimo parecchio il costo che le corporation devono sostenere se vengono rubati i dati personali degli utenti (il che succede di continuo) ci sarebbe un incentivo a creare un mercato diverso per la protezione dei consumatori: a Facebook e Google non converrebbe più archiviare quei dati. Non ci si può fidare di loro, perché è con i nostri dati che guadagnano. Ma si può immaginare un sistema diverso, in cui a conservarli siano aziende che rispondono a noi. Penso che nei prossimi anni sarà possibile una decentralizzazione».
Dovremmo abbandonare Facebook?
«Se ne parla molto, ma è difficile, perché Facebook facilita la connessione passiva con persone che non cercheremmo attivamente: un servizio utile. Per Facebook vedo un’altra minaccia esistenziale: sempre meno persone postano pubblicamente sul news feed, non sono più tanto sicure di voler parlare continuamente di fronte a colleghi, amici, famigliari e inserzionisti pubblicitari. Così Facebook può perdere rilevanza. Un altro interrogativo riguarda Instagram. Al momento, sembra possibile che chi abbandona Facebook si rifugi su Instagram e WhatsApp, senza rendersi conto che sono la stessa cosa. I fondatori di WhatsApp hanno lasciato Facebook con 1,3 miliardi di dollari sul tavolo, furiosi per le intrusioni nella privacy che venivano imposte».
Lei è a favore di leggi più restrittive?
«Il punto è che tipo di leggi. Meglio cambiare il mercato per scoraggiare ciò che non ci piace, per esempio rendendo l’archiviazione dei dati troppo costosa, piuttosto che cercare di decidere cos’è permesso dire. Sono certo che la questione del monopolio dei giganti del web sarà uno dei temi centrali della campagna democratica per la Casa Bianca nel 2020. Facebook non sarebbe un problema così grosso se ci fossero alternative; e questo vale anche per Google».
I social cercano di impedire l’incitamento all’odio, ma chi viene censurato può rifugiarsi altrove nel web. L’attentatore che ha ucciso 11 fedeli nella sinagoga di Pittsburgh esprimeva il suo odio antisemita su «Gab». In queste «bolle» gli estremisti non rischiano di diventare ancora più fanatici?
«È arduo fermare chi cerca un certo tipo di comunità o informazione. Ma le domande su censura e libertà di espressione vengono spesso poste in modo sbagliato, come se la scelta fosse tra consentire di parlare liberamente oppure no. Invece il punto è chiedersi quali discorsi vengono amplificati e su quale base. Le persone che vanno online a cercare propaganda nazista sono poche, ma gli utenti che possono essere esposti a quelle idee attraverso la loro amplificazione sono molti di più. Perciò la questione è: che cosa stiamo amplificando e perché».
A parte i social, quali fattori hanno portato all’elezione di Trump?
«Non sottovalutiamo l’efficacia del suo messaggio né le altre forme in cui viene diffuso. I media di destra più seguiti negli Stati Uniti non sono online: molti sostenitori di Trump, bianchi di mezza età, ascoltano le radio e Fox News più che twittare. Ma in aggiunta i social sono efficaci nel trasmettere la paura, che spinge la gente a desiderare una leadership autoritaria, a maggior ragione in comunità in crisi, dove conformismo e intolleranza crescono e si tende a cercare un capo da seguire. Le percezioni sono cruciali: è facile creare la sensazione che qualcosa stia accadendo, che il crimine sia in aumento o i terroristi alle porte. Benché non corrisponda alla realtà, si ottengono gli stessi risultati politici. È un modo per hackerare la psicologia della gente».
Chi si candiderà contro Trump?
«Molti, da Elizabeth Warren a Beto O’Rourke. Ma per me la questione cruciale è: che cosa faremo per evitare che i giganti del web controllino i nostri dati? Si è discusso molto sulle conseguenze negative delle piattaforme. Oggi abbiamo le idee chiare su come far danni online, meno su come creare uno spazio più sano. È su questo che lavoro come ricercatore al think tank New America: penso che avere una visione di quello che vorremmo costruire sia importante quanto lo è punire le corporation che stanno creando questi problemi».