Corriere della Sera, 6 gennaio 2019
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Biografia di Michelangelo Pistoletto raccontata da lui stesso
Sembra di vederlo, Michelangelo Pistoletto, mentre si sfrega le mani per scaldarsele in una soffitta torinese da «bohème» negli anni 50..., in attesa che un critico d’arte si accorga di lui.
«Scherza? Io sono nato con la camicia, partorito da mio padre e instradato da mia madre. In quegli anni vivevo del mio lavoro d’artista e avevo una Giulietta Spider color amaranto metallizzata...».
Si fermi, per cortesia: sta distruggendo la leggenda dell’artista affamato, incompreso e sfruttato da un gallerista spregiudicato. Poi, come ha fatto a partorirla suo padre?
«Papà era un pittore figurativo di talento. A otto anni, per una meningite, perse l’udito. Riusciva però a parlare e aveva imparato a leggere le labbra. Sordo, concentrò tutto sulla capacità di osservare e riprodurre quello che vedeva. Dipingeva magnifiche nature morte con selvaggina, frutti e ortaggi. Sono cresciuto tra l’odore dei colori a olio e il profumo proveniente dalla cucina, dove mamma cucinava i soggetti ritratti da papà. Mi insegnò tutto quel che sapeva e, dopo la guerra, mi prese a bottega: gli aristocratici vendevano i tesori di famiglia alla nuova nobiltà, gli industriali, che si rivolgevano a mio padre per restaurare i quadri. Una fortuna sfacciata, apprendevo, senza fatica, un mestiere. Però avevo fame di futuro».
In che senso?
«Qui entra in scena mamma, di Biella, con il guizzo naturale dell’imprenditore. Papà venne chiamato nel 1930 da Ermenegildo Zegna per realizzare un graffito in chiaroscuro che raccontasse la storia dell’arte della lana nel Medioevo. Il lavoro durò tre anni. Conobbe mamma, ragazza con ambizioni artistiche che non fece grandi progressi. In compenso, nel 1933, venne al mondo il sottoscritto. Ultimato il graffito tornammo a Torino. Una vita serena fino a quando, nel ’43, gli Alleati bombardano la città. Riemersi dal rifugio scavato sotto all’atelier di papà, nel bel mezzo dello studio trovammo una bomba inesplosa: eravamo salvi per miracolo. Imballammo tutto e sfollammo dai nonni in Val di Susa. Seguirono due anni di paura e fame, infine la rinascita. Mentre ero a bottega non del tutto soddisfatto, mamma disse: “Va bene l’antichità, ma bisogna guardare avanti. Il futuro è nella pubblicità. Perché non mandiamo Michelangelo alla scuola di Armando Testa?”. Era la scintilla necessaria. Il corso durava due anni, ma già sei mesi dopo Armando mi propose di lavorare per lui. “No” risposi “sono già tuo concorrente”: un amico mi aveva ceduto il suo studio perché era diventato direttore di una grande agenzia».
Ma lei è un artista, non un pubblicitario!
«Non lo sarei diventato se non avessi scoperto, attraverso la pubblicità, l’arte contemporanea. Di giorno lavoravo nell’agenzia, la sera mi rintanavo in uno studiolo in via Bava. A Torino organizzarono l’esposizione Arte in vetrina. Nessuno commentava le opere, salvo quella di un tal Fontana: un buco in una tela. Le lascio immaginare i commenti. Io osservavo e riflettevo: non so quali siano le ragioni di quel pittore, però devo trovare le mie, e se inveiranno contro di me, avrò raggiunto il mio scopo. Cominciai a lavorare sulla materia da cui emersero i miei autoritratti. Ne mandai uno al premio San Fedele e lo vinsi. Venne allora a trovarmi Mario Tazzoli, proprietario della Galleria Galatea (a Torino rappresentava Bacon, Giacometti, Magritte, Balthus, Sutherland) e mi propose di lavorare per lui. Ben presto, però, imboccai una strada che al gallerista non piaceva. Cercando la mia identità, mi accorsi che l’artista può rappresentare tutto, tranne se stesso, se non ha uno specchio, e cominciai a trasformare la tela in materia riflettente, prima con un fondo nero lucidissimo, poi con acciaio levigato al punto da trasformarsi in un quadro specchiante. Trovai così la mia identità: non ero più isolato ma me stesso insieme a chi si rispecchiava con me; passavo dall’io al noi. E ponendo una figura sullo sfondo, l’opera diventava quadrimensionale, inglobando il tempo che passa: l’immagine, da presente diventa passato che perdura insieme allo specchio che, invece, cambia continuamente diventando futuro. Tazzoli espose le opere nel 1962, ma se ne vergognava. Un giorno arrivò Giovanni Agnelli, il miglior cliente. Non si accorsero che ero nell’altra stanza e sentii Tazzoli dire all’Avvocato: “Mi perdoni per questa esposizione, purtroppo è di un pittore sotto contratto...”».
Lei intervenne?
«No, scappai via sconvolto. Salii sulla mia spider, andai a cercare una ragazza sudamericana ospite di amici che stava viaggiando in Europa e le dissi: “Ti porto io a Parigi”. Visitai tutto il visitabile. L’ultimo giorno incontrai per strada Beppe Romagnoni, un artista milanese. “Passa da Ileana Sonnebend, l’ex moglie di Leo Castelli, il gallerista newyorkese della Pop Art”, disse, “sta aprendo una galleria a Parigi con opere che sembrano dialogare con le tue”. Ci andai senza convinzione. I quadri non erano ancora esposti ma gentilmente me li fecero sbirciare in uno sgabuzzino. “Lei è un collezionista?”. “No sono un artista”. Nel baule della macchina avevo dei cataloghi e un quadretto che non avevamo appeso. La faccio breve: una settimana dopo Ileana con il nuovo marito Michael vennero a Torino, comprarono tutte le opere da Tazzoli e gli tolsero “l’incomodo” del mio contratto ingaggiandomi. Nel ’63 esponevo in compagnia dei grandi della Pop Art. Tutti americani, salvo Pistoletto. Leo Castelli portò il miei lavori a New York e li mostrò insieme a quelli di Jasper Johns, Warhol, Lichtenstein, Oldenburg, Jim Dine, Rauschenberg».
La storia è presto finita: da allora solo tappeti rossi, o sbaglio?
«Poteva andare così ma non lo permisi. Quando Rauschenberg vinse il premio per la miglior opera straniera alla Biennale di Venezia, l’America si sentì finalmente incoronata del primato artistico. Il gran cerimoniere dell’investitura era Leo Castelli. Un giorno, a Parigi, seduto su un taxi tra lui e Alan Salomon, il direttore del padiglione americano di Venezia, Leo mi disse: “O diventi americano o per te non c’è più spazio. Se non entri nella nostra famiglia temo possano boicottarti”. Voglio credere fosse un consiglio amichevole. Comunque sia, qualche tempo dopo non si sa come né da chi, le mie opere esposte nella sua galleria vennero prese a martellate. Arrivai a temere per la mia vita. Tornai in Italia e decisi di distruggere con le mie stesse mani la logica del “marchio” che mi volevano appiccicare per darmi il successo. Lavorai a opere definite Oggetti in meno, diverse le une dalle altre, così da rendere impossibile commercializzare il mio nome attraverso le mie opere. Non volevo essere un marchio. Se prima l’avevo costruita, adesso mandavo in frantumi la mia identità. Ileana e Michael Sonnabend assistevano sconsolati: “Michelangelo, ti stai distruggendo”. “Bravi, avete capito al volo!”. Affittai una vecchia tipografia dietro al museo dell’automobile e chiamai giovani artisti disposti a combattere l’imperialismo nell’arte. Fu quello l’incubatore dell’Arte povera, come venne poi spiegato da Germano Celant in un conciso scritto del ’67».
Balthus, Giacometti, Magritte e poi Warhol, Lichtenstein... che rapporti si creavano tra voi artisti?
«Giacometti mi invitava nella sua villa a Stampa, in Svizzera. Parlavamo dei nostri padri: anche il suo era pittore. Con Balthus andammo a caccia di mobili del Quattro-Cinquecento. Nominato direttore di Villa Medici a Roma, l’Accademia francese, la trovò spoglia e decise di arredarla. Grazie a mio padre, conoscevo tutti gli antiquari del Piemonte. Magritte era come i suoi quadri: un’ovvietà surreale. Anche con gli americani si instaurò un ottimo rapporto. Confesso che da provinciale torinese rimasi piuttosto scosso quando alla Fabbrica di Warhol vidi tutti questi uomini baciarsi e toccarsi».
Pistoletto l’indomabile: fa una palla di carta di giornale e la fa correre per le strade di Torino, «liberando» così l’arte; poi torna alla base, Biella, dov’era solo nato, e fonda una Città dell’arte. Non pago, pretende di «cambiare il mondo» con un progetto battezzato Terzo Paradiso. A parte il segno grafico (un infinito composto di tre cerchi con quello centrale più grande), cos’ha a che fare con l’arte?
«Se l’umanità vuole sopravvivere deve trovare una via di riconciliazione tra la natura originaria e l’artificio che ha costruito. Io sono uno 007 con licenza di creare e il mio discorso non può interrompersi: l’arte, nella sua totale autonomia, assume la massima responsabilità. Il Terzo Paradiso è l’era dell’umanità responsabile».
Da dove le viene tutta questa forza?
«Se ti sembra di non essere compreso, reagisci. La fortuna si guadagna con la volontà».