Robinson, 6 gennaio 2019
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Biografia di Isabella Rossellini raccontata da lei stessa
Le dico che ha un bel paio di orecchini. Lei li sfiora come fossero una reliquia. Poi sorride. E immagino che possano essere appartenuti alla madre. Una donna che ha fatto grande il cinema, godendone sobriamente i trionfi. Le dico come si fa ad avere impunemente una madre così e non subirne alcun apparente contraccolpo e lei mi guarda come se mi avventurassi in territori proibiti. A sessantasei anni Isabella Rossellini conserva contemporaneamente la grazia di volersi aprire e il sospetto di doversi difendere. C’è qualcosa di inscalfibile nella sua persona che ha attraversato molte storie e tirato i fili di molte vite. Non le chiederei mai dove sta andando. Perché mi appare come una donna dalla molte direzioni. Sentimentali e professionali. Un cartografo avrebbe qualche difficoltà a collocarla. Vive a New York. Anzi ci ha vissuto. Ha scelto il meno caotico New Jersey. Più che un passo indietro. Un passo laterale: «Ho scelto di vivere in una fattoria, dove mi occupo di animali e produco ortaggi. Capisco che la cosa possa apparire stravagante, ma ho tirato uno di quei fili, molto antichi, cui lei alludeva » . Da quel mondo Isabella ha perfino estratto un libro (Le mie galline e io, edito da Jaca Book) che è una sorta di omaggio al volatile più bistrattato della terra.Come le è venuto in mente di scrivere di galline?«Nella scala dei valori animali la gallina occupa uno degli ultimi posti. Ed è un peccato perché anzi c’è chi sostiene che discendiamo da quei volatili».Come fa a saperlo?«Dopo che fui allontanata dalla Lancôme, il marchio di cui ero testimonial, mi sentivo smarrita. Lasciai New York e andai a vivere in campagna. Nella vicina università avevano istituito un corso di etologia. Non ero più giovane ma decisi di iscrivermi. Fu come riprendere un vecchio discorso mai interrotto veramente».Quale discorso?«Tutto ha origine dal dono di un libro che mio padre mi fece quando avevo quattordici anni: L’anello di Re Salomone in cui Konrad Lorenz racconta di un anello magico che consentiva al re di parlare con gli animali. Da allora mi incuriosisce tentare di capire un linguaggio che non è il nostro. Un mio vicino di casa, Carl Safina, del quale sono diventata amica, ha scritto un libro sul modo che gli animali hanno di comunicare e il nostro grado di comprensione».Il libro è “Al di là delle parole”, edito da Adelphi.«Non sapevo fosse stato tradotto. La barriera tra esseri umani e animali, dice Safina, è del tutto artificiale. Egli ci ricorda che la vita familiare non è una nostra esclusiva».A proposito di vita familiare, com’era Isabella bambina?«Ciascuno impara a proprie spese la potenza simbolica dei propri genitori. Soprattutto se hanno una riconoscibilità assoluta».Intende dire che erano figure ingombranti?«Non hanno fatto nulla perché la mia vita si complicasse. La libertà si accentuò dopo che i miei divorziarono. Mia madre andò a vivere prima a Londra e a Parigi. Poi a New York. Le città erano scelte in relazione alle esigenze lavorative».E lei?«Io cosa?».Come reagì a quel divorzio?«Nessun bambino gioisce alla separazione dei genitori. La cosa insopportabile però fu il clamore che la vicenda provocò. I rotocalchi, i settimanali scandalistici per mesi non parlarono d’altro. Cercavo di fare la mia vita nella maniera più normale possibile. Una scoliosi piuttosto grave mi tenne per lungo tempo a letto. Quando, dopo un intervento, stetti meglio, mi sentii invadere da una irrequietezza sconosciuta».Come si manifestava?«A scuola non riuscivo a seguire le lezioni. Mi annoiavo profondamente. A volte saltavo le lezioni. In quelle ore, giravo per Roma come se non conoscessi la città. Tutto mi meravigliava. La gente. I luoghi. Di preferenza finivo col passeggiare nei parchi. Una volta presi una corriera e andai ad Anzio».Suo padre si accorgeva del disagio?«Non era un disagio, almeno non credo. Era un piccolissimo gesto di insofferenza verso le istituzioni. Mio padre era spesso fuori per lavoro. In qualche parte dell’Italia o del mondo a girare film o documentari».Immagino non fosse un padre apprensivo.«No, però era un padre geloso dei miei fidanzati. Un tormento: e con chi esci? Chi è lui? Dove andate? A che ora torni?».Per essere un uomo al quale si attribuivano numerose storie femminili era strano, no?«Che devo dire: sarà stata la legge del contrappasso. A un certo punto però decisi di andare via di casa. O meglio, fu mia madre che mi propose di andare a vivere a New York: qui le opportunità non ti mancheranno e comunque male che vada imparerai bene una lingua, mi disse. Avevo 19 anni. In quel periodo la mamma lavorava in un teatro di Broadway».L’impatto come fu?«Una città vitale, dove è duro vivere. Ma anche esaltante. Scoprii dopo un po’ che la Rai Corporation cercava una ragazza da affiancare a un giornalista nei suoi reportage. Fui scelta e divenni l’assistente di Gianni Minà. Il mio ruolo era di interprete».Ben presto passò a ruoli più impegnativi.«Renzo Arbore mi chiamò per L’altra domenica. Il programma era nato in sordina. All’inizio doveva essere una specie di riempitivo della parte sportiva: piccoli sketch, qualche canzone. Qualcuno si accorse della strepitosa bravura di Renzo e della potenzialità che il programma aveva. Fu un successo clamoroso».In che misura ne beneficiò?«A volte penso che il pubblico televisivo ancora mi riconosce per le mie presentazioni e interviste newyorchesi».Lei voleva fare televisione?«La televisione non si fa. O almeno non nel senso in cui si fa il cinema. Per dirla con i miei amati animali, la televisione richiede una specie di “linguaggio animale”, un’immediatezza sconosciuta agli altri mezzi dello spettacolo. A me non dispiaceva. Però a Roma avevo studiato all’Accademia del costume e della moda. Era quello il mondo che mi interessava».Perché?«Sinceramente non ho una risposta precisa. Forse era un buon compromesso tra il cinema, sovranamente occupato dai miei genitori, e la televisione da cui stavo ricavando qualche soddisfazione. La verità è che mi proposero un servizio fotografico di moda per Vogueinternazionale. Fu Bruce Weber a scegliermi e a realizzare le foto. Lì capii che lavorare con i fotografi di moda mi piaceva tantissimo».Quasi un piacere erotico.«Mi sono spesso chiesta quale sia la perfezione di una foto sopra tutte le altre centinaia scattate. E l’unica risposta che trovo è che in quella foto è stato catturato l’istante. Accade un po’ la stessa cosa con il fotografo di guerra. Con la differenza però che il fotografo di moda deve ricostruire qualcosa di emotivamente significativo. La sua foto è meno spontanea, più studiata. Richiede pazienza. A volte è esasperante. Però al dunque la grande foto di moda emana qualcosa di magico».A parte Weber con quali altri fotografi ha lavorato?«Helmut Newton, Peter Lindbergh, Robert Mapplethorpe, Richard Avedon».Quando dice “magico” cosa intende?«È ciò che non riusciamo a spiegare. Non c’è niente di intellettuale in una grande foto. Ricordo che Avedon ricreava uno studio perfetto nei dettagli. Quando cominciava a scattare mi diceva: pensa a qualcosa. Io mi concentravo su un pensiero. E lui: pensa a qualcos’altro perché quello che stai pensando non mi piace! La verità è che i grandi fotografi di moda, come quelli che le ho citato, sono artisti. Vedono ciò che noi non vediamo».Forse non vedono ciò che noi vediamo.«Forse è meglio così. La moda non è arte di serie B. Diana Vreeland — direttrice di Vogue e Harper’s Bazaar — fondò al Metropolitan il dipartimento della moda. Era una donna minuta ma dotata di grande carisma, divenne una specie di sacerdotessa capace di innalzare la moda all’arte».Un modo diverso di lavorare sulla fotografia fu quello di Roberto Rossellini.«Mio padre rivoluzionò l’uso dell’immagine restituendole quell’immediatezza sconosciuta a molto cinema di allora, compreso quello americano. Questa forza credo abbia affascinato mia madre».Al punto da spingerla a scrivere la famosa lettera in cui esprimeva grande ammirazione per il suo cinema e la disponibilità a lavorare per lui. È vero che fu Robert Capa a suggerire a sua madre di vedere i film di Rossellini?«È probabile, dal 1945 si frequentarono per un certo periodo».A proposito di cinema vorrei sapere come sono stati i suoi inizi.«Disastrosi. Il mio primo film fu girato dai fratelli Taviani. Erano stati amici di mio padre. Un mese prima che morisse papà, presidente della giuria di Cannes, gli aveva fatto vincere la Palma d’oro. Era il maggio del 1977. Papà morì nel mese di giugno. Poco tempo dopo mi chiesero di recitare per un film. Dissi di no. E informai mia madre».Era d’accordo su quel no?«Per nulla. Disse: il cinema è un’avventura di vita, non lasciartela sfuggire. I Taviani insistettero e alla fine accettai. Il film si intitolava Il prato. Andò malissimo. Mi rividi goffa e impacciata. Provai dei sensi di colpa».Non crede che avesse il diritto di sbagliare?«Non mi vivevo come un’attrice alle prime armi. Ero pur sempre la figlia di due “mostri sacri”. Chiunque avrebbe misurato la distanza incolmabile. Mi ritirai in buon ordine e tornai alla moda».E quando riprese?«Passarono alcuni anni, nel frattempo avevo avuto molto successo nella moda. Fu a quel punto che Taylor Hackford mi chiese di interpretare Il sole a mezzanotte. Prima che il film uscisse nelle sale, David Lynch mi offrì una parte in Velluto blu. Un paio d’anni dopo feci Cuore selvaggio. Avrei anche dovuto lavorare a Twin Peaks, ma non potei farlo perché un contratto mi legava alla Lancôme».Come è stato lavorare con Lynch?«Da subito mi piacque moltissimo. Era gentile e scarno di parole. Se una cosa gli piaceva o non gli piaceva si intuiva dalla sua emotività, non dalle spiegazioni».In linea con il suo cinema fatto più di immagini che di parole.«Più di ogni altro aspetto per lui conta il mistero. Una cosa che mi diceva spesso era: se la vita la capisci tutta, che senso ha viverla?».Il vostro legame è andato al di là del cinema.«La nostra storia è durata sei anni. Con molta indipendenza. David viveva a Los Angeles e io a New York».Un’altra storia importante è stata con Martin Scorsese.«Fu molto precedente. Ci sposammo nel 1979 e divorziammo nell’82».Due grandi registi molto diversi.«Indubbiamente. Se Lynch rappresentava il mistero, Scorsese metteva in scena la violenza. Ogni regista ha un proprio mondo, un’ossessione a cui dare una forma e una storia. Ho lavorato con Peter Greenaway, John Schlesinger, Stanley Tucci, Robert Zemeckis. Non ce ne è uno che sia riconducibile agli altri».Avrebbe lavorato con suo padre?«Non c’ho mai pensato. Papà non parlava mai di cinema. Però ricordo nel suo studio una grande foto di Chaplin. Tutto sommato non sarebbe stato male lavorare con entrambi».Rossellini fu molto amico di Godard, lo ha conosciuto?«Fu amico di tutta la Nouvelle Vague che in lui vide un maestro. Jean-Luc andavo a trovarlo a Ginevra. L’ultima volta che ci siamo visti risale a sei o sette anni fa. Mi guardava, mi faceva un buffetto e diceva: come stai bambina mia? Guarda che ho sessant’anni, gli rispondevo».Tiene alla sua immagine?«Non mi identifico con la mia immagine. Con il lavoro sì».Sembra una donna che non ha paura del tempo che passa.«Ho vissuto età diverse e provato desideri diversi. Non c’è rassegnazione ma curiosità per quanto ancora di nuovo può arrivare. Non temo gli effetti del tempo su di me».Donne e uomini cercano di arrestarlo, con esiti grotteschi.«Non riesco filosoficamente a conciliare il bio e il botox. Sono contraria alla chirurgia estetica. Molte donne lo fanno più per disperazione che per convinzione».Disperazione perché?«Perché veniamo escluse. Come le ho detto a quarantadue anni Lancôme mi diede il benservito. Fui considerata troppo anziana! Oggi sono stata richiamata dallo stesso marchio come testimonial. Qualcosa sta cambiando! Sono sempre più convinta che le nostre vite dovrebbero reggersi un po’ più sulla meraviglia che sul cinismo».