Robinson, 6 gennaio 2019
La miniera di tutti i simboli
Perché sei così duro – chiese il carbone al diamante – non siamo forse parenti stretti? E tu perché sei così tenero – fu la risposta – non sei forse mio fratello? Con la sua limpidezza aforistica, spiazzante e schiacciante, Nietzsche nel Così parlò Zarathustra fa del carbone la grande metafora dell’energia nascosta. Di una potenzialità che può diventare ogni cosa e prendere ogni forma. In realtà, questo residuo fossile della creazione è diventato un simbolo proprio grazie alla sua inerte oscurità, alla sua virtualità non-finita, da responso oracolare. Perché il carbone, che sia spento o che sia ardente, combustibile o combusto, ha sempre a che fare con la forza bruciante della natura. Che giace in sé stessa, come perpetua possibilità della vita. È quel che resta del fuoco che arse impetuoso nelle vene del mondo – per dirla con Montale – e che dorme in attesa di destarsi dal suo riposo freddo.
Ecco perché il carbone è diventato l’emblema della potenza solare che si occulta nelle profondità della terra. Una sorta di riserva di vitalità. Che dà calore e luce a chi riesce a far brillare quel fondo scuro dell’essere e delle cose. Ed è proprio il color nero a trasformare questo minerale in un total black dell’immaginario. Un effetto notte cui l’esperienza e la coscienza hanno sempre attribuito una miriade di significati.
Non a caso il carbone è il simbolo, positivo e al tempo stesso negativo, della rivoluzione industriale e del suo bilancio di costi e benefici, di progresso e di inquinamento. Grande allegoria della vita miserevole e insalubre della Londra vittoriana e di una condizione operaia vicina alla schiavitù. Da allora l’opacità nerastra che riveste i corpi e getta l’ombra sulle anime, diventa il contrassegno narrativo di una sorte buia e senza uscita. Come le miniere di carbone, descritte alla stregua di mostri che divorano bambini. Costretti dall’età di cinque anni a strisciare attraverso cunicoli tenebrosi così bassi e stretti che gli adulti non ci passano. L’odissea quotidiana di questi piccoli portatori che avanzano gattoni in una notte perenne, con pesi di sessanta chili sulle spalle, e che muoiono prima dei venticinque anni, ha contribuito a costruire la leggenda nera del carbone. Che ha un suo tenero controcanto nella poetica degli spazzacamini. Ragazzini magrissimi perché malnutriti e rivestiti di fuliggine come di una seconda pelle, che si calano giù per le canne fumarie con l’agilità di spiriti folletti. La loro vita vera è distante anni luce dal quadretto del diversamente elfo di Mary Poppins che gorgheggia” Can camini, can camini spazzacamin, allegro e felice pensieri non ho”. E poi aggiunge “la sorte è con voi se la mano vi do”, alludendo all’antica credenza popolare secondo la quale gli spazzacamini portano fortuna a tutti coloro che toccano o baciano.
Ma, molto prima della carbon tax, la civiltà del carbone ha anche un segno progressivo. Soprattutto nei paesi del socialismo reale, dove eroi del popolo come Aleksej Stachanov, che ha dato il nome allo stachanovismo, entrano nella storia dopo aver raccolto 102 tonnellate di carbone in cinque ore. Senza dire dei carbonari, che nel segreto hanno acceso il fuoco dell’unità italiana.
Sono queste proprietà simboliche del carbone ad averlo fatto entrare a gamba tesa nella calza della befana. A somiglianza di quanto avveniva nelle antiche feste pagane di gennaio, dove i tizzoni carbonizzati dei roghi di fine anno venivano donati insieme ai dolci, quali auspici per quello nuovo. A queste tracce nere del passato il cristianesimo assegna un senso negativo, trasformandolo in un attestato di cattiva condotta da consegnare ai bambini che non si sono comportati bene. E ancora oggi la notte della befana conserva quel carattere di attesa magica e al tempo stesso di resa dei conti. Premi e castighi. Previsioni e lezioni. Cose buone da mangiare e cose assolutamente inappetibili come cipolle, cenere. E soprattutto carbone. Ormai del tutto neutralizzato dalle befane buoniste di oggi, che hanno trasformato la sostanza amara come l’inferno in deliziosi cristalli di zucchero brunito. Una sanzione a salve, tipica di una società come la nostra, che ha abolito la sanzione dal suo orizzonte pedagogico. E l’ha sostituita con l’assoluzione. In attesa di prescrizione.