Robinson, 6 gennaio 2019
Un sacco di carbone
L’ultima tornata della conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici si è tenuta, nelle settimane prima di Natale, a Katowice, epicentro dell’industria carbonifera polacca. Che è un po’ come se un congresso sull’aria pulita si tenesse a Taranto. A dare il benvenuto ai delegati internazionali c’era una banda di minatori. Nel centro congressi erano esposti cosmetici a base di carbone e gioielli tempestati di schegge dello stesso minerale. D’altronde la Polonia ricava dal carbone l’ottanta per cento del suo fabbisogno energetico. E il presidente Andrzej Duda non ha potuto fare a meno di notare che, possedendo il Paese riserve per almeno altri due secoli,” sarebbe difficile non approfittarne”. Già. In questa onesta confessione locale sta la risposta a un interrogativo dalle ricadute globali: perché il pianeta è ancora tanto dipendente da un’energia notoriamente brutta, sporca e cattiva? Perché costa poco. E gli esseri umani, come spiega il premio Nobel Daniel Kahneman, se non sono assi a calcolare il loro vantaggio immediato si rivelano schiappe assolute nel quantificare i danni che quell’uovo avvelenato oggi può arrecar loro in futuro. Che poi si vedono bene anche nel presente dal momento che trentasei delle cinquanta città più inquinate d’Europa si trovano in Polonia e studi sostengono che quell’ariaccia avrebbe provocato in un anno 47.500 morti premature. Lo stesso décalage tra realtà e azione politica si sconta, a vari livelli, su scala mondo. È possibile colmarlo con argomenti razionali?
Sin qui i dati scientifici hanno avuto scarsa presa. In ottobre il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu riunitosi in Corea del Sud ha parlato di “ultima chiamata” per salvare il pianeta dalla catastrofe ambientale. A novembre uno studio di tredici agenzie governative statunitensi ha previsto che siccità, uragani e incendi peggioreranno per colpa della condotta scellerata dell’uomo. Al che Donald Trump ha semplicemente commentato” non ci credo” ( magistrale la risposta che potete trovare su YouTube digitando” Trevor Noah Trump climate change"). A dicembre, proprio a Katowice, il Global Carbon Project ha annunciato un nuovo record per le emissioni di CO2 del 2018 (+ 2,7 per cento, contro il +1,6 dell’anno prima). “Siamo nei guai”, ha commentato il segretario generale dell’Onu António Guterres, “è difficile capire perché ci muoviamo così lentamente e nella direzione sbagliata”. Quella del carbone, appunto. Il cui consumo non cresce solo a Varsavia ma anche in Giappone, Indonesia, India, Vietnam e Russia. Per non dire della Cina, il principale produttore al mondo, dove l’output è tornato a salire dopo anni di declino.” Stiamo assistendo a una rinascita del carbone”, ha commentato sul Guardian Ottmar Edenhofer del Potsdam Institute for Climate Impact Research, “ed è disastroso. Non basta pregare, bisogna fare qualcosa”. Qualcosa di radicalmente diverso da quanto è successo nei tre anni dalla firma dell’accordo di Parigi sul clima, con istituti finanziari che hanno fatto a gara, nelle stime della ong Urgewald, per investire quasi cinquecento miliardi di dollari nelle aziende che realizzano centrali a carbone. Segno che non scommettono su una loro imminente dipartita.
Perché ne siamo ancora così dipendenti, chiedo ad Adair Turner, un Lord britannico che oggi dirige l’Institute for New Economic Thinking? «Perché sin qui è stata una fonte di elettricità facile e a buon mercato. Se le confrontassimo con centrali da costruire le rinnovabili costerebbero meno, ma c’è un enorme inerzia perché tante centrali di carbone esistono già e l’unico costo marginale è gestirle. Per velocizzare la transizione si deve rendere il carbone meno vantaggioso con tasse sul suo utilizzo». Per lui la sostituzione totale è un obiettivo fattibile: « Mission Possible, il rapporto della Energy Transitions Commission parla di un mondo a zero carbone entro il 2060. Mentre un loro rapporto precedente distingueva tra sbarazzarsene per la produzione di energia termica entro il 2025 nei Paesi ricchi e il 2050 in quelli in via di sviluppo». Il tentativo è di tenere insieme ambiente ed economia. Bilanciamento particolarmente delicato nell’industria pesante, tipo acciaio e cemento per cui il carbone è centrale. Lord Adair resta ottimista ( «Si dovrebbe puntare sull’idrogeno e, a valle, sulla cattura delle emissioni del carbone residuo. Così facendo, entro il 2040, il costo finale di un’auto aumenterebbe giusto dell’1 per cento»). Molto meno Carlos Fernández Alvarez, lo specialista dell’Agenzia internazionale dell’energia: «Il 70 per cento dell’acciaio si ottiene bruciando carbone e anche gli scarti, che coprono il resto della produzione, ne hanno bisogno. Una sostituzione oggi è impensabile. Esistono tecnologie nuove, ma ci vorrà tempo». Anche sul fronte non industriale tiene a bada l’entusiasmo: «I bisogni energetici mondiali sono immensi. Il carbone ne copre più di un quarto, che diventa il 38 per cento se ci limitiamo alla sola elettricità. A spanne, quel fabbisogno cresce di 500 TWh all’anno, un aumento che né rinnovabili né l’energia nucleare possono coprire. In Cina, nel 2017, il fabbisogno è cresciuto di 115 TWh, pari al consumo elettrico di tutta l’Olanda. Ma costruire una nuova centrale a trimestre non è bastato ed è salito anche il consumo di carbone».
Accanto ai soliti cinesi, spunta tra gli inadempienti l’insospettabile Germania. «Quanto a percentuale di dipendenza per l’elettricità India e Cina sono sopra, ma è comprensibile data la recente industrializzazione. Mentre la Germania che è, non da oggi, tra i paesi più ricchi, si era impegnata a rispettare certi obiettivi e invece le sue emissioni sono cresciute perché ha bruciato più carbone per compensare la dismissione delle centrali nucleari, posticipando invece il phase out di quelle a carbone. Ciò fa sì che per ogni kilowattora di elettricità produca emissioni sopra 500 contro le 250 britanniche e le 100 francesi». Tutto è ovviamente relativo. Ancora il 21 dicembre un mesto scampanellio alla presenza di uomini coperti di fuliggine e l’immacolato presidente Frank Walter Steinmeier annunciava la chiusura della miniera di Bottrop, l’ultima della Ruhr.” Finisce un’epoca”, commentava il presidente Ue Jean-Claude Juncker. I tremila minatori si interrogavano ansiosi sul futuro. Ma il Paese genera ancora quasi due quinti di elettricità dal carbone e continuerà a estrarre la lignite, suo parente povero ancora più nocivo, le cui sorti dovrebbero essere decise in febbraio. Per non dire degli Stati Uniti dove il denier- in- chief del riscaldamento globale ha messo a capo dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) Andrew Wheeler, un ex- lobbista del carbone. D’altronde Trump ha vinto anche promettendo di proteggere i minatori della Rust Belt. Sebbene rappresentino solo lo 0,03 per cento della forza lavoro americana, e muoiano a frotte di malattie polmonari, il sottotesto simbolico (sono il campione dei duri lavoratori bianchi) ha funzionato benissimo. «Il carbone ha sempre fatto male alla salute. C’erano ragioni per smettere di usarlo già prima della consapevolezza del riscaldamento climatico», spiega David Jones, specialista di Sandbag, un think tank sui temi ambientali. Dov’è la pressione dei cittadini sui politici perché affrontino il tema? Io non la vedo. Ma è essenziale». Ancora nel 2012 il 42 per cento dell’elettricità britannica veniva dal carbone. Nel 2017 è sprofondata al sette per cento. Pensare che il problema sia troppo grosso per metterci mano è il regalo di Befana più grosso che si può fare ai negazionisti di ogni latitudine.