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 2019  gennaio 06 Domenica calendario

Mamma che paura Turandot alla russa. Intervista a Tatiana Arzamasova



La prima immagine mostra una creatura stilizzata. Un drago rosso dalle linee morbide sorvola una distesa di totem dai colori vivaci. Ma restringendo la prospettiva, tutto muta. Nel proprio ventre robotico, la bestia cela un gruppo di uomini sottomessi a creature androgine. Quelle ali sorvolano una metropoli operosa, un alveare umano che avrebbe esaltato e terrorizzato Ernst Jünger e dal cielo il drago libera una distesa di petali che si colorano di rosso con il sangue delle teste mozzate degli schiavi. Con queste immagini si apre la videoinstallazione della Turandot,
ideata dal collettivo russo AES+F con il regista Fabio Cherstich, una prima assoluta in programma al Teatro Massimo di Palermo il prossimo 19 gennaio (sino al 27). Sullo schermo di un tablet nel foyer del teatro siciliano, l’artista russa Tatiana Arzamasova mostra il trailer che principia con le celebri note di Giacomo Puccini e mentre i petali scivolano giù volteggiando sulle teste dei sudditi, commenta: «Ecco, la bellezza e la violenza si mescolano insieme, senza alcuna barriera. È sempre stato così sin dalla notte dei tempi. La nostra Turandot pesca nelle radici di quella favola antica e violenta, proponendone una visione distopica e surreale, ambientata nel 2070 a Beijing, la capitale dell’impero globale basato su un matriarcato tecno-femminista radicale. Turandot diffonde false immagini di sé, come le fake news che usano Trump e Putin». Tatiana Arzamasova si occupa di architettura concettuale da decenni. Vive e lavora a Mosca, già vincitrice del premio Grand prix nel concorso "Theater of Future" organizzato dall’Unesco. Con Lev Evzovich, Evgeny Svyatsky e Vladimir Fridkes ha dato vita al collettivo AES+ F, nato nel 1987, con l’intento di « trovare un punto di incontro tra fotografia, video e tecnologie digitali per esplorare i valori, i vizi e i cortocircuiti della cultura contemporanea».
Con Last Riot nel 2007 e Inverso Mundus nel 2015 al padiglione russo della Biennale di Venezia, il collettivo ha ottenuto riconoscimenti a livello mondiale e nel 2013 ha ricevuto la medaglia d’oro dell’Accademia delle Arti Russe. Ora AES+ F torna a Palermo — la scorsa estate erano qui con l’installazione Mare Mediterraneum
nel corso di Manifesta 12 — con una Turandot «che guarda al futuro capovolgendo gli archetipi del passato » . Un nuovo allestimento originale in coproduzione con Badisches Staatstheater Karlsruhe e il Teatro Comunale di Bologna (dove sarà in scena dal 28 maggio al 7 giugno) e in partnership con il Lakhta Center di San Pietroburgo. L’orchestra e i cori del Teatro Massimo saranno guidati dal direttore musicale Gabriele Ferro per la regia di Fabio Cherstich.
Per questa opera avete creato scene e costumi originali, firmando il vostro esordio assoluto nel teatro della lirica con una video- installazione proiettata su tre schermi attorno al palco. Perché la "Turandot"?
«Fabio Chersich ci ha proposto di lavorare fianco a fianco in questo progetto artistico che ci ha subito conquistati. Il soggetto è perfetto, tutti gli eroi in scena sono un po’ matti e fra le note si parla di musica, genialità, incoscienza e amore».
Perché avete immaginato un futuro distopico?
« La Turandot originale ha dei tratti fiabeschi e orientali che rimandano al mondo della Persia e a una certa idea di chinese fashion. Noi abbiamo scelto una via più contemporanea per mostrare cosa potrebbe accadere partendo dalla realtà che abbiamo sotto i nostri occhi».
Corriamo il rischio di una deriva di potere assoluto e tirannico?
« Immaginiamo Beijing come la capitale di un impero globale basato su un matriarcato tecno-femminista radicale che potrebbe nascere un domani, come conseguenza estrema del movimento # MeToo, laddove il sentimento della vendetta contro gli uomini prenda una spiccata piega politica. La principessa Turandot del futuro è consapevole del proprio potere. È una donna bellissima e folle che perpetua un’idea di violenza, capovolgendo i ruoli. Nel suo mondo sono gli uomini a essere schiavi in catene».
Nelle vostre installazioni è centrale il concetto multiculturale.
«E anche in Turandot abbiamo scelto di eliminare la linea orientale, preferendo un contesto globalizzato per raccontare la nostra società, puntando tutto sugli istinti basilari e le emozioni primitive. Per far ciò i costumi, le scene e la videoproiezione lavorano in sincrono toccando i sensi del pubblico in sala».
Una favola globalizzata con costumi anni Quaranta?
« Un regime totalitario femminile del futuro poteva scegliere qualsiasi stile per rendere il concetto di bellezza e per noi le linee degli anni Quaranta creano un perfetto contrasto con quel potere centrale. Così Liù indossa un costume da infermiera, i tre ministri — Ping, Pong, Pang — hanno uno stile completamente rosso, dalle scarpe ai guanti e Timur, il re spodestato, si presenta con un’uniforme militare un po’ shabby che ricorda lo stile vistoso di Muhammad Gheddafi. Infine, per i membri del coro abbiamo scelto di mescolare lo stile sobrio di Casablanca a un tocco di pop art, colorando impermeabili, cappelli e scarpe con un arcobaleno fatto di toni accesi».
Il vostro esordio nel mondo della lirica potrebbe aiutare questo teatro, ampliandone il pubblico, ringiovanendolo?
«Noi lo speriamo. Nei teatri in giro per l’Europa abbiamo notato che, sovente, il pubblico più anziano siede nei costosi posti centrali e spesso mancano i giovani. Proprio da qui, da Palermo, speriamo che inizi una piccola rivoluzione».
Certo, l’effetto visivo è forte. Le immagini possono turbare un pubblico tradizionale. Che reazioni vi aspettate per la vostra "Turandot"?
« Difficile da dirsi, siamo pronti a tutto, dagli applausi ai fischi. Cresciuti nel contesto della cultura classica non volevamo una versione troppo prevedibile della storia, per questo l’abbiamo ambientata nel futuro ma guardando al nostro presente. Viviamo in un mondo in cui Donald Trump e Vladimir Putin somigliano a due clown impegnati in una rappresentazione da commedia dell’arte, mostrandosi ora come lupi mannari ora come placidi gattini, scambiandosi ruoli e posizioni agli antipodi per gettare fumo negli occhi. Come loro, la nostra Turandot usa le fake news per mostrarsi sempre diversa e conquistare in questo modo la devozione incondizionata dei propri sudditi».
Avete una concezione politica dell’arte?
«Ci interessa piuttosto creare un dialogo che possa aprire gli occhi del pubblico, ricorrendo all’arte per favorire cortocircuiti, provocare emozioni forti e mostrare ciò che fingiamo di non voler vedere. Ciò che ci importa è essere sinceri, come in un processo di psicanalisi. Ma l’opera lirica, in sé, ha certamente un significato politico».
Qui a Palermo avete già portato la vostra installazione "Mare Mediterraneum" nel corso di Manifesta 12.
«In quel caso abbiamo realizzato delle porcellane di Capodimonte, un simbolo di comodità borghese, per rendere l’idea della fragilità del nostro presente mentre il mar Mediterraneo è ancora una volta terreno di scontro ideologico al centro dei processi migratori».
Nei vostri progetti ricorre l’idea di un futuro di cui aver paura.
«Quel timore affonda nelle radici della natura umana. Solo nei totalitarismi, come il comunismo, il futuro è inteso come un tempo felice e pieno di vittorie. Ma è un’illusione».