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Il 12 agosto 1985 un jet delle Japan Airlines si schiantò sul monte Takamagahara uccidendo oltre cinquecento persone. A quel tempo Hideo Yokoyama era uno fra i tanti giovani giornalisti che si occuparono del disastro. Diventato famoso scrittore di polizieschi, ha dedicato a quei giorni tragici Uno Sette,romanzo ora tradotto nella nostra lingua sulla scia del successo di Sei Quattro, un thriller puro molto apprezzato dalla critica occidentale. Uno Sette,invece, non è un “giallo”, va detto subito, e nemmeno una cronaca o un reportage. L’autore, con il quale abbiamo conversato via mail, lo definisce un « romanzo aziendale » , perché racconta il disastro aereo dal punto di vista di Y?ki, cronista di un giornale locale. Ma, precisa, «non ho pensato a un genere letterario. Ho cercato di mettere in primo piano la mentalità di chi lavora nei media, e soprattutto l’influenza morale e materiale che esercita sull’individuo la struttura nella quale è inserito».
Come in “ Sei Quattro”, anche in “ Uno Sette” l’azione si svolge su due piani temporali: l’oggi, con Y?ki che si propone di scalare una pericolosa montagna che non potè scalare perché l’incidente aereo glielo impedì, e il passato. “Uno Sette” sono infatti i diciassette anni che separano il giovane giornalista di un tempo dal maturo signore di oggi. Perché la scelta di questa tecnica narrativa?
«A grandi linee possiamo dire che è per dare profondità al racconto. Oltre a ciò, è un tentativo di inserire un personaggio ( in questo caso il protagonista Y?ki) in due diverse ambientazioni in un solo romanzo. Che cosa cambia e che cosa non cambia nell’uomo, con il cambiamento di età e posizione sociale? Questo è un punto di vista indispensabile anche per una riflessione sulla continuità della vita».
È davvero ammirevole la sua abilità nel creare un clima di attesa spasmodica nel lettore muovendo da fatti in apparenza insignificanti, che però si caricano di una grande forza drammatica quando entrano in risonanza con la psicologia dei personaggi.
«Svelando il procedimento, innanzitutto inizio a scrivere dal “tempo ordinario”; poi, avendo qui collocato i sentimenti originari del personaggio di cui sto scrivendo, presto molta attenzione al passaggio in cui irrompo nel “tempo straordinario”. Questo perché credo che proprio nel processo di transizione dal “ tempo ordinario” al “ tempo straordinario” sia situata quella fascia di collegamento dove si rivela la natura dell’essere umano».
A proposito della vera natura di Y?ki: il protagonista fa tante scelte difficili, in cui si trova continuamente in bilico fra etica e marketing. E ne paga le conseguenze. Non c’è una morale amara in tutto questo?
« Anche molti giornalisti giapponesi mi hanno detto “ è terribile!”, ma a me piacciono le persone che ci rimettono di proprio lottando per una giusta causa. Penso che l’uomo pur perdendo molte cose, se riesce a tenersi stretto in tasca anche solo un pezzetto della propria dignità, possa vivere camminando a testa alta».
Onore, dignità, fermezza. Nei suoi romanzi ricorrono personaggi che fanno di tutto per non manifestare la gioia o il dolore o l’angoscia o la paura ma poi finiscono per cedere. Noi occidentali consideriamo tutto ciò molto “giapponese”, e siamo abituati a pensare alla vostra come a una cultura composta, in cui non si deve mai mostrare l’emozione. Condivide?
« Uhm, non è sbagliato. Ho l’impressione che anche in Giappone si stia diffondendo un certo individualismo di matrice occidentale. Tuttavia, lasciando da parte il comportamento effettivo, credo che ancor oggi la maggior parte dei giapponesi apprezzi la moderazione e consideri una virtù essere in armonia con gli altri. Questo deriva in parte da una tendenza della popolazione a cedere con facilità alle pressioni. Tuttavia, il sistema di impiego a vita nella stessa azienda, che costituisce la base dello siluppo di tale forma mentis, sta pian piano crollando; mentre si va velocemente sfaldando il senso di appartenenza alla struttura aziendale, i giapponesi ora, disorientati, stanno cercando di capire come sarà la società di domani».
Ritorna in “Dieci Sette” una frase decisiva: “La scalata si fa per poi poter scendere”. Ce ne vuole spiegare il senso?
«Mi ricollego alla risposta precedente. Secondo la mentalità dei giapponesi all’epoca dell’incidente (1985), in cui era pienamente in vigore il sistema di impiego a vita, il termine “scendere” ( oriru) non si limitava al significato di lasciare semplicemente la struttura aziendale, ma implicava la necessità di essere addirittura pronti a “ scendere dalla vita”. In più, vi si sovrappone il pressante desiderio di non avere più niente a che fare con le malefatte all’interno dell’azienda e, come metafora di questa decisione e determinazione c’è la “ salita” ( noboru) ( sul monte dove la morte è vicina)».
Credo che anche questa considerazione apparirà molto “giapponese” ai lettori italiani.
«Per questo sono molto contento che il pubblico italiano possa leggere il mio romanzo. Il rapporto fra individuo e struttura sociale e la realtà dei media sono diversi a seconda del paese, ma negare l’universalità sarebbe come negare l’uomo. Spero sinceramente che possiate scoprire qualche punto di contatto con voi stessi nel cosiddetto “modello giapponese”».
E, infine, se dovesse definire il suo rapporto con l’Italia?
«L’Italia è stimolante ed è anche una presenza molto vicina. Una volta alla settimana vado a mangiare in un ristorante italiano, ogni tanto vedo in televisione le partite di Serie A, e ho un’automobile italiana prodotta nel 1972 che guido da più di dieci anni. Storia, cultura, arte, moda: in ogni campo l’Italia continua a mostrarci una forte personalità. Non c’e dubbio che qualunque giapponese, con profonda ammirazione, pensi che sia “il paese di cui si ha sempre voglia di raccontare qualcosa”. Dimenticavo: Il nome della rosa di Umberto Eco è per me un libro difficile da dimenticare».