la Repubblica, 6 gennaio 2019
l’inverno di Maradona senza un tramonto
È sempre l’inverno del suo scontento. Quello che all’inizio dell’anno obbliga a fare i conti con se stessi, con quello che si vorrebbe essere, e non si riesce. Diego Armando ci è ricascato: in un malore, in una decadenza fisica, in una sospetta emorragia gastrica che a Buenos Aires lo ha portato in ospedale, da cui è stato dimesso, ma dove dovrà tornare per essere operato domani o martedì di ernia iatale. «Vi ringrazio per i messaggi di sostegno. Mi dispiace che vi siate preoccupati senza motivo. Oggi mi prendo cura dei miei nipoti Benja, Dieguito Mattia, e di mio figlio Diego Fernando. Mando un un bacio a tutti».
Diego ha dieci centimetri di stomaco in meno, che gli è stato reciso quando aveva 46 anni come cura per l’obesità: era arrivato a pesare 130 chili, ad essere un Marlon Brando sudamericano e mancino. Certi dolori si rinnovano, sempre nelle stesso giorno: 19 anni fa a Punta del Este, in Uruguay, fu un’overdose di cocaina a portarlo vicino alla morte e a farlo sognare di salire la cima dell’Aconcagua. «Perdevo l’appoggio ma non cadevo, dondolavo nel vuoto, ma appeso». Uscito dal coma in ospedale si mise la maglia numero 10 dell’Argentina e in ciabatte e bermuda si prestò a foto di gruppo con canti, baci e balli. «Yo soy el Diego».
Stavolta invece nulla di preoccupante, forse solo la scarsa voglia a tornare nella serie B messicana, sulla panchina dei Dorados che oggi giocano contro il Celaya. El Diez, grandissimo in campo, non riesce ad essere strepitoso come tecnico. E questo lo affatica, lo demotiva, lo spegne. Anzi lo umilia. Ci ha provato: con l’Argentina di Messi, schiaffeggiata 4-0 dalla Germania nel mondiale 2010, prima con il Textil Mandiyú, con il Racing, con l’Al Wasl negli Emirati Arabi, e infine nel 2017 con l’Al-Fujairah. Ma anche con gli sceicchi nessuna scintilla, né promozione. E se sei Caravaggio, insegnare ad esserlo agli altri, spesso somari, è sempre frustrante. Diego dopo il mondiale russo si era offerto gratis per il posto del ct di Sampaoli, molto criticato, ma con cui condivideva la passione per i tatuaggi, nessuno però in Argentina aveva accolto la sua proposta.
Eppure lui nello stadio di San Pietroburgo, contro la Nigeria, aveva tifato come un matto per la sua nazionale, agitando pugni e sigaro, tanto da sentirsi male, per poi entrare come un imperatore romano nella città di Br?st in Bielorussia su un fuoristrada Hunta Overcomer con l’incarico di presidente onorario della Dinamo Brest (carica che ha conservato). E con un trattamento da star di Hollywood: reggia a Minsk da 20 milioni di dollari, sette camere, piscine riscaldate dentro e fuori, 11 persone a disposizione, aeroporto privato, due automobili (Bmw e Rolls Royce Phantom Coupé) oltre al veicolo militare. Ma se con un gol di mano e uno di piede, in una giocata di 10 secondi, correndo 60 metri, superando 6 avversari, con 13 tocchi di palla, hai pareggiato una guerra con l’Inghilterra per le isole Malvinas, poi è facile che ti annoi anche del lusso. Il tuo estremo non sta in quel ricciolo di gloria barocca, ma nell’ansia e nella nostalgia di un infinto che ora scappa.
Così Diego in autunno ha ricominciato dal Messico, dal paese che nell’86 lo aveva visto felice, da i Dorados de Sinaloa, da una squadra che si chiama come i pesci che Diego pescava con suo padre, a Esquina, dove il río Corrientes incontra il río Paraná e dove lui nell’89 scappava dalle pressioni del Napoli. Stato difficile, quello del cartello di Sinaloa, di Joaquín Guzmán, «El Chapo», ma per Maradona quasi quasi un ritorno a casa, per lingua e clima calcistico. Sembrava il tentativo di una risalita, prendere in mano un team giovane, nato nel 2003, per portalo nella massima divisione, con stipendio da nababbo (150 mila dollari al mese). Ma Diego, subito bollato come «ct dei narcos», è stato anche preso in giro per la sua scarsa forma fisica, pancia e andatura da pinguino, ginocchia scassate e da operare non gli consentono di camminare (figurarsi correre) in maniera regolare. Quindi risate e disprezzi dei telecronisti per gli allenamenti a tarda sera e per la ciccia.
Poi si sa che Diego ha bisogno di nemici, e non essendoci più né Bush né Blatter, né Grondona, ecco la lite e gli insulti agli arbitri («Questo non è baseball, è calcio, ma loro non lo sanno»), la squalifica per proteste uso del cellulare, e una volta in tribuna la rissa con i tifosi che gli contestavano la fallita promozione ai supplementari nel ritorno della finale play-off contro l’Atletico San Luis persa 4-2. Purtroppo tirando in ballo sua madre, donna Tota, morta nel 2011.
Diego ha passato Natale in famiglia, con figlie e figli riconosciuti e con il nipotino appena nato, ha postato un video dei suoi palleggi, con colonna sonora dei Beatles («Don’t let me down»), disertando la panchina dei Dorados, che nel frattempo hanno allontanato Luis Islas, suo collaboratore di fiducia. Tornerà in Messico dopo l’operazione? Lui tranquillizza: «Sono entrato in clinica a 58 anni e ne sono uscito a 50».
Il problema non è l’età, ma il serial Maradona che ancora non trova una fine, solo un lunghissimo viale del tramonto.