La Stampa, 6 gennaio 2019
Roma-MIlano, una giornata di ordinaria rabbia
Questa è la cronaca di un’ordinaria giornata di rabbia in Italia. E del tentativo di capirne le motivazioni. Per i rimedi (come per i miracoli) ci stiamo attrezzando.
Comincia al mattino, su un taxi diretto all’aeroporto di Roma. Il conducente sacramenta perché la app della compagnia gli ha dato un indirizzo diverso da quello a cui lo aspettavo. Aggiungiamoci che «la Roma va come va» e «’sto governo s’è messo con gli Ncc» e la sua misura è colma. Per tracimare ascolta alla radio un programma chiamato Cor veleno corve, che credo sia il preferito dai tassisti di Roma, o almeno l’unica alternativa alle radio del tifo. Già il titolo spiega il tipo di trasmissione.
Il conduttore, Luca Casciani, è l’erede di una tradizione americana di voci della notte che, dialogando con gli ascoltatori se la prendevano con il mondo. A lui riesce di primo mattino. Lo ha tranquillizzato soltanto l’opportunità di intervistare il ministro dell’Interno, poco prima della sua apparizione in piazza del Popolo. Il ministro, anche in quella circostanza, era invece arrabbiato. Per che cosa non è chiaro: il suo partito era al 4 per cento, è salito al 17 per cento poi, salutando alleati elettorali che non stima e mettendosi con alleati di governo che non stima e si prepara a salutare, ha raddoppiato virtualmente i consensi, ma continua a schiumare come se il Paese fosse amministrato da altri che occorre eliminare. Purtroppo, la volta in cui il ministro dell’Interno dialogava «cor veleno» ero con un Ncc e, quando ha rassicurato i tassisti, il guidatore ha avuto un attacco di rabbia durato qualche chilometro.
«Ho votato per quelli lì»
«Scusi, ma lei per chi ha votato?».
«Per quelli lì. Ma perché ci avrebbero difesi da Uber, che non sono italiani».
Infatti il ministro dell’Interno, manco avesse sentito, ha attaccato «la multinazionale», assicurando che non troverà spazio. E pensare che a me era sembrata un’idea internazionale e funzionale che aggiungeva occasioni di lavoro transitorio e flessibile, ma devono essere tutti aggettivi desueti. E peggio per chi, credendo quello fosse il futuro, li ha accostati al proprio stile di vita.
A Fiumicino il volo AZ è in ritardo per cause non identificate. Passeggeri con la Freccia Alata e lo zainetto griffato perdono la pazienza e sbraitano all’imbarco. Li avete visti anche voi quelli che, quando un aereo ha problemi, urlano alle hostess: «Vi meritate di fallire!». Alle hostess, impossibilitate a influire su qualsiasi scelta aziendale, compresa quella delle divise imbarazzanti in cui sono state imprigionate per anni. Una volta ho sentito perfino un noto comico gridare quella e altre peggiori frasi. Ci sono rimasto male: neppure un professionista della risata riesce a prenderla con ironia? È stato, in scala, come quando a Beirut il mio pasticciere è partito per farsi saltare in Iraq. Da uno che faceva dolci non mi aspettavo quella volontà di morte e autodistruzione. Dove nascondeva la sua rabbia?
In volo metto le cuffie per non ascoltare i discorsi irosi dei miei vicini (uno, architetto, ce l’ha con Renzo Piano perché «fa tutto lui», l’altro un po’ incongruamente aggiunge: «Sì, ma anche Guadagnino... ora fa pure i negozi»). Scorro i commenti sui giornali on line e ci trovo gli stessi livori: editorialisti di lungo corso danno sfogo alla pancia del Paese e alla propria in un sofisma rovesciato. Se la prendono con i politici, la neve, l’Europa, il sashimi, ma la vera causa della rabbia che esprimono sembra essere la sola invincibile: il tempo che passa e cancella ogni volto, ogni parola.
All’attacco di chi ha di meno
Leggo una notizia sportiva e commetto l’errore di scorrere i commenti postati nelle schermate successive dai lettori. «La Juve prende Ramsey» dà la stura a una serie delle più retrive e scontate accuse, manco il gallese fosse l’arbitro degli ottavi di Champions e non un centrocampista. Colpiva, su questo giornale, l’intervista all’avvocato della curva interista: affermava che gli ultras di oggi sono spesso borghesi di età matura. In realtà non è affatto stupefacente. Quarant’anni fa frequentavo le gradinate del Bologna e, brevemente, i «commandos» che le animavano. Un lunedì vidi uno dei più facinorosi: era al lavoro, stava seduto all’ingresso dei bagni diurni e raccoglieva le monetine per l’ingresso in un sottovaso verde. Il suo sfogo domenicale era quello di un escluso. In piazza andava un movimento di «non garantiti». Esprimeva rabbia chi non aveva. Ora lo fa chi ritiene di non avere abbastanza, in base a parametri soggettivi e quindi non verificabili. E a pianificare agguati stradali può essere il tuo architetto ultrà, per vendicarsi di Renzo Piano.
È una spirale innescata da un confronto spesso improponibile che finisce poi, un po’ per la viltà delle cose facili, per attaccare non chi ha di più, ma chi ha di meno e detiene un bottino non protetto.
A Milano lo scenario dell’ordinaria giornata di rabbia non cambia. Ascolto «ercolini semprinpiedi» imprecare contro presunti complotti che hanno determinato la loro esclusione da ruoli ancora più elevati; uomini agiati e di successo progettare di incanalare questa furia popolare in progetti editoriali, programmi televisivi, film. Sono passati dal potere al potere semplicemente cambiando camicia. E infuriandosi con la propria storia e i propri soci decaduti.
La sera tornando a Roma finisce che mi arrabbio pure io: il tassista non trova l’indirizzo a cui sono atteso, neppure consultando il navigatore. Vaghiamo per vicoli finché scendo, dopo uno scambio di insulti che non fa onore a nessuno.
Renzo Arbore è una delle persone più sagge e capaci di vivere di questo Paese. Aveva ragione quando ha detto che ci sarebbe bisogno di un leader col sorriso, ma solo la generale benevolenza gli ha evitato quel che avrebbero replicato a un altro. In realtà credo ci sarebbe bisogno di uno psicologo specializzato in controllo della rabbia, capace di spiegare semplicemente che quel che abbiamo è più o meno quel che meritiamo e, conducenti o passeggeri, stiamo tutti passando.