La Stampa, 6 gennaio 2019
L’eterno ritorno di Belzebù
L’anno appena cominciato sarà ricordato anche per le celebrazioni del centenario andreottiano della nascita dello statista (14 gennaio 1919), di cui s’annuncia un’imprevedibile, quanto contraddittoria per il modo in cui venne congedato da una vita politica secolare, rivalutazione. Due mostre fotografiche si apriranno il 15 e il 16 presso la Biblioteca Spadolini del Senato e il Complesso monumentale di San Salvatore in Lauro, con l’inevitabile colpo d’occhio di una classe dirigente, quella della Terza Repubblica, che con il «Divo Giulio» non ha mai avuto a che fare, e una domanda - fu vera gloria? - sospesa nel tempo infinito dell’unico leader italiano del Novecento rimasto in qualche modo in servizio fino all’epoca della sua scomparsa (6 maggio 2013): «Il viale del tramonto è lungo e bello, Dio me lo conservi», diceva Andreotti già all’inizio degli Anni Ottanta, quando chiunque lo considerava bollito, tranne lui, che si preparava a formare il suo settimo governo.
Mito intramontabile
Il motivo per cui, diversamente da quelli di Moro, Fanfani, dello stesso De Gasperi, nonché dei più recenti De Mita e Forlani (impropriamente paragonato, nei giorni scorsi, all’attuale premier Conte), il mito di Andreotti è intramontabile non dipende solo dalla durata della sua esperienza, dalla Costituente e dagli albori della Repubblica al fianco di De Gasperi, ai quaranta e più governi di cui ha fatto parte, oltre a quelli che ha guidato, ai mille frangenti difficili, ambigui, discutibili, in cui s’è trovato invischiato, fino al processo per mafia da cui è uscito per metà assolto e metà prescritto, dato sempre politicamente per morto, e risorto a dispetto di tutto e tutti. E neppure al ruolo peculiare, unico, ricoperto ininterrottamente e indipendentemente dai suoi compiti ufficiali, di uomo di fiducia del Vaticano nelle istituzioni italiane, in un’epoca in cui il peso delle Gerarchie nella vita pubblica italiana era decisivo.
Andreotti è stato essenzialmente due cose: il ministro degli Esteri del Vaticano e l’uomo simbolo del «noir» italiano. Inflessibile e talvolta irragionevole nel fiancheggiamento della «Ostpolitik» dell’allora segretario di Stato cardinale Casaroli verso un’Urss ormai cadente, o nell’incomprensibile difesa delle due Germanie alla vigilia della caduta del muro di Berlino, o ancora nella testarda salvaguardia dell’amicizia filo-araba, professata anche al costo di un raffreddamento nei rapporti con l’alleato americano, per non dire di stragi e attentati sanguinosi (come Cossiga avrebbe rivelato prima di morire), in nome di un’inconfessabile ragion di Stato e della convinzione che la collocazione geopolitica dell’Italia (la famosa «portaerei affacciata sul Mediterraneo») poteva riservarci anche peggio di quel che ci toccò subire.
Quanto alla sua seconda identità, peculiare più della prima, Andreotti è stato testimone o protagonista di innumerevoli passaggi grigi della recente storia contemporanea, e per questo chiamato a presenziare nelle aule di giustizia, sfiorato varie volte dai sospetti, fino all’apoteosi finale del «processo del secolo», che tendeva a rappresentarlo non solo come uno dei tanti politici in rapporti con i boss siciliani (vedi Berlusconi via Dell’Utri, Mannino, Cuffaro, Lombardo), ma come una specie di capo, o co-capo, insieme cpn Totò Riina «u’ curtu», della mafia. Benché sia uscito pulito, o semipulito, da questo come da un’infinità di altri procedimenti (omicidio Pecorelli, rapporti con la P2, strage di piazza Fontana, scandalo della Lockheed, disastro aereo di Ustica, e un po’ tutti i misteri italiani degli Anni Sessanta-Settanta-Ottanta), l’immagine dell’Andreotti-Belzebù, con la sua gobba, il suo sguardo affilato e alcuni suoi improbabili compagni di cordata (uno per tutti, lo «Squalo» Sbardella) è connessa a questo percorso di guerra, per certi versi un Calvario.
Inevitabile doppiezza
Così che non c’è dubbio che Andreotti si sia trovato al crocevia fatale della doppiezza italiana; che ne sia stato consapevole, e forse convinto che non c’era altra strada per un Paese come il nostro; e se qualcuno doveva fare il lavoro sporco, tanto valeva che fosse lui, che lo avrebbe fatto meglio di altri e perfino nell’interesse dello Stato.
Ma a parte la ricorrenza del centenario, è tutta politica la ragione per cui il 2019 potrebbe incredibilmente diventare un anno andreottiano: l’ipotesi, prefigurata di recente in un’intervista di Manfred Weber alla Stampa e ribadita solo due giorni fa da Matteo Salvini al Corriere della Sera, dell’alleanza in Europa di una parte del fronte sovranista con i popolari dopo il voto di maggio. Centrodestra e destra estrema uniti per attutire l’impatto sul Parlamento di Strasburgo dei populisti antieuropeisti. Coalizione inedita e forse impensabile, proprio come quelle - con i liberali, con i socialisti, con i comunisti, perfino con i post-fascisti, di cui provocò abilmente una scissione - che il «Divo» sapeva costruire in stagioni diverse, a sostegno dei suoi governi e di sé stesso, con una semplice formula magica: niente nemici, né a destra, né a sinistra, né in alto né in basso; il Parlamento legittima tutti, ancor prima della Storia, soleva ripetere. Un metodo che a un certo punto, negli anni del bipolarismo muscolare e della Seconda Repubblica, dovette tuttavia soccombere all’avvento del quotidiano, quanto sterile braccio di ferro tra centrodestra e centrosinistra.
Come è andata a finire, si sa: non solo in Italia, ma un po’ in tutta Europa, compresa la Gran Bretagna che sembrava imbalsamata allo storico confronto tra laburisti e conservatori, partiti e governi sempre più deboli e condannati dalla lunga crisi economica a impopolari politiche di austerità, hanno dovuto arrendersi, o stanno per farlo, alla carica dei populisti-sovranisti e alla rivoluzione delle loro promesse irrealizzabili. A meno che a sorpresa l’Europa non diventi il laboratorio di un nuovo esperimento, proprio nel solco tracciato a suo tempo da Andreotti. Il «Divo Giulio», la «volpe» che Craxi avrebbe voluto mandare «in pellicceria» e invece morì ultranovantenne nel suo letto. Adesso tocca a Salvini decidere se morire sovranista o sopravvivere democristiano.