La Stampa, 6 gennaio 2019
Dentro il carcere con Junqueras: «Barcellona libera in un’Europa unita»
Per parlare con l’uomo che ha in mano le sorti del movimento indipendentista bisogna farsi aprire una decina di cancelli blindati, consegnare telefono e computer ed entrare nella sala colloqui di un carcere. Il sogno della repubblica catalana è finito, almeno per ora, dentro le mura altissime e vigilate del centro penitenziario di Lledoners, sulle colline alle spalle di Barcellona, nella comarca del Bages. Impossibile perdersi: il cammino che conduce alle porte della prigione è segnato, per molti chilometri, da migliaia di lacci gialli disegnati sull’asfalto, il simbolo del sostegno ai «prigionieri politici», segno di una mobilitazione che coinvolge tutta la regione che sogna di diventare nazione.
La cella numero 64
Oriol Junqueras spunta al termine di un lungo percorso, dopo un tunnel con le finestre oscurate, un cortile deserto dal quale si intravede in lontananza una bandiera indipendentista. L’ex vice di Puigdemont è uscito dalla sua cella, la numero 64, ed è seduto in una cabina adibita ai colloqui. Quando scopre che ci sono visite, sorride e appoggia la mano al vetro che separa i carcerati dal resto del mondo, un gesto al quale, suo malgrado, sembra essersi abituato. Le sorti della politica spagnola, per paradossale che possa sembrare, passano da questo signore, che in maniche di camicia divide lo spazio con altri 750 detenuti. Le condizioni estreme alla quali deve far fronte non lo hanno cambiato, il leader repubblicano scandisce il suo pensiero, ripetendo tre parole quasi ossessivamente: «Dialogo»; «Rispetto»; «Federalismo europeo». Chi si aspetta, però, qualche passo indietro, o almeno un’autocritica sul naufragio del tentativo repubblicano, resterà deluso. Troppo vicino il processo per ammettere ripensamenti.
Junqueras è in prigione preventiva dal 2 novembre del 2017, oltre 8 mesi trascorsi nel carcere di Extremera, vicino a Madrid e altri 7 nella propria terra, grazie a un trasferimento deciso dal governo socialista la scorsa estate, aprendo una stagione di dialogo, finora senza molti risultati. Per il detenuto Junqueras e per gli altri 8 leader catalani in carcere sono ore frenetiche. Fra poche settimane comincerà, infatti, il processo che li vede imputati, a diverso titolo, di reati come la ribellione violenta, sedizione e malversazione di denaro pubblico, per aver organizzato il referendum sull’indipendenza della Catalogna il 1° ottobre del 2017, una sorta di colpo di Stato, secondo la tesi della procura generale spagnola, che ha chiesto una pena di 25 anni per Junqueras. «In fondo sono contento - dice, parlando con una cornetta - mi hanno ridotto al silenzio con la forza, chiudendomi dietro a queste sbarre, e ora finalmente avrò l’opportunità di spiegare agli spagnoli e agli europei, che non abbiamo commesso nessun reato, che organizzare un referendum non è punito dal codice penale. Chi ha ragione, non vede l’ora di parlare. Ci difenderemo politicamente, ma giuridicamente in nome dei valori europei». Eppure Junqueras non si fa illusioni sulla possibilità di una sentenza positiva: «Finora niente è stato giusto, tanto che i tribunali di mezza Europa hanno riconosciuto che non è esistita la violenza in Catalogna». L’Europa è l’orizzonte ideale e anche giuridico che torna nella sua strategia: «I prossimi anni della mia vita non saranno facili, ma il mio scopo resta una Catalogna indipendente in un’Europa federale, con istituzioni più forti». L’Ue, però, significa anche il tribunale di Strasburgo, che, nella speranza dei «presos politicos», dimostrerà la loro innocenza.
Junqueras ci tiene a non mostrare cedimenti e fisicamente appare in forma: «Il mio animo è forte, la prigione è la prova di quanto siamo stati coerenti». La sua vera preoccupazione è la famiglia, costretta a trasferte continue per le visite, che diventeranno viaggi molto più lunghi, quando tra qualche giorno i detenuti verranno trasferiti a Madrid per l’inizio del processo. Oriol ha scritto una serie di racconti per i suoi bambini di 6 e 3 anni, alcuni ambientati a Roma, «non li posso mettere a letto e cerco così di essere presente», dice nell’unico momento di commozione.
Il presidente di Esquerra Republicana, nella sua condizione, può leggere i giornali e ha accesso a radio e tv, riceve poi visite frequenti dai membri del governo catalano. Sa quindi perfettamente che l’estrema destra ha l’ambizione di vincere le Europee (alla quali lui si presenta come capolista): «Mi spaventa questa ascesa e vedere che si lascino affogare le persone in mare, mi spinge a proseguire la battaglia europeista».
Il fenomeno ora riguarda anche la Spagna, con Vox che sta guadagnando posizioni, anche grazie a un discorso molto aggressivo contro gli indipendentisti. Alcuni sondaggi indicano una possibile maggioranza di un’alleanza (non così ipotetica) di conservatori e ultra nazionalisti. Junqueras, in qualche modo, sente la pressione di tutti quelli che gli ricordano che un argine a questo scenario (catastrofico in ottica indipendentista) può metterlo lui stesso.
Frenare l’estrema destra
I voti di Esquerra, infatti, sono decisivi nel parlamento spagnolo per approvare la Manovra dando ossigeno e slancio al governo socialista che ha optato per il dialogo in Catalogna. Per ora gli indipendentisti sono orientati a votare no, «almeno che Sánchez faccia qualche proposta. Apprezzo gli sforzi ed è ovvio che preferisco lui a un governo diverso». Alcuni secessionisti mettono così la questione: appoggio alla Finanziaria, solo se si liberano i «prigionieri politici». Junqueras rifiuta l’automatismo, però aspetta qualche offerta. Non può non sapere, inoltre, che una parte dell’indipendentismo accusa il suo partito di voler frenare eccessivamente: «Nessuno ha più fretta di me, si capisce, no? Però io devo fare in modo che, quello che voglio per la mia gente, si possa effettivamente realizzare». Una chiamata al realismo che lo distanzia, non solo fisicamente, da Puigdemont, il quale dal suo esilio belga insiste per nuove accelerazioni, «ma nel fondo siamo d’accordo, vogliamo un referendum accordato con lo Stato spagnolo». Dopo un’ora di colloquio, un agente penitenziario fa un cenno. È ora di tornare in cella. La mano torna ad appoggiarsi sul vetro, con un messaggio finale: «È dura, certo, ma ne vale la pena».