La Stampa, 6 gennaio 2019
In America democratici al bivio
Con l’insediamento del nuovo Congresso di Washington inizia di fatto negli Stati Uniti la sfida per la Casa Bianca 2020 ed il primo interrogativo riguarda i democratici: devono scegliere su quale identità politica puntare per sfidare il presidente Donald Trump ed il bivio è fra populismo e riformismo.
Disporre della guida della Camera dei Rappresentanti con una veterana come Nancy Pelosi significa avere al timone - come terza carica dello Stato - un leader politico a cui spetterà nelle prossime settimane una scelta strategica: come reagire al Rapporto Mueller sul Russiagate e dunque come indirizzare le inchieste sul comportamento dell’amministrazione che potrebbero portare a tentare la strada dell’impeachment di Trump. Ma la decisione che incombe su Pelosi è solo un tassello del mosaico democratico perché, come osserva Jeff Berman, ex stretto collaboratore di Barack Obama nelle campagne elettorali, «queste presidenziali saranno senza precedenti nella storia del nostro partito». Il motivo è il numero degli sfidanti alle primarie: se nel 2000 il duello fu Gore-Bradley, nel 2004 Kerry-Edwards, nel 2008 Obama-Hillary e nel 2016 Hillary-Sanders questa volta si profila una sfida assai più affollata. Assieme a Elizabeth Warren, che ha già annunciato in Massachusetts il comitato elettorale, vi sono altre sue donne senatrici, Kirsten Gillibrand di New York e Amy Klobuchar del Minnesota. A cui bisogna aggiungere i senatori afroamericani Kamala Harris della California e Cory Booker del New Jersey. E poi vi sono Bernie Sanders del Vermont, determinato a cercare la rivincita rispetto a quattro anni fa, l’ex vicepresidente Joe Biden convinto di potercela fare, forse l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg e, secondo indiscrezioni, anche l’ex Segretario di Stato John Kerry.
Se ad un tale scenario aggiungiamo Beto O’Rourke, giovane deputato rampante del Texas, non è difficile arrivare alla conclusione che il parterre delle primarie democratiche potrebbe assomigliare a quello repubblicano del 2016: talmente frastagliato da consentire notevoli sorprese.
Da qui l’importanza per i liberal del bivio sull’identità del partito perché tutti i possibili candidati sopra citati - ad esclusione di Biden, Bloomberg e Kerry - sono protagonisti di posizioni radicali di sinistra al punto da meritare nei talk show della domenica la definizione di «trumpismo senza Trump» ovvero una versione liberal del populismo che ha tre maggiori tasselli. Innanzitutto l’esaltazione dichiarata della sfida al «sistema razzista», sinonimo dei bianchi, che Warren, Harris, Booker e Gillibrand vogliono «sradicare» perché, come ripetono i portavoce di Sanders, «bisogna farla finita con il potere delle corporation». È un linguaggio opposto rispetto a quello che distinse Obama, sin dalle primarie del 2007, perché evitava sempre lo scontro razziale diretto, preferendo parlare della «necessità di unire l’America» e chiedendo agli afroamericani di superare il «vittimismo» diventando piuttosto protagonisti della società «post-razziale». L’estremismo anti-bianchi porta con sé una seconda caratteristica che distingue movimenti come «Black Lives Matter» e iniziative come la marcia delle donne di Washington venata di antisemitismo: la convinzione che il futuro dei liberal sia nel rappresentare l’«Intersectionality» ovvero l’alleanza, ipotizzata da alcuni gruppi di sinistra negli Anni Settanta, fra tutti i gruppi «oppressi» ovvero afroamericani, ispanici, migranti, musulmani, donne, gay, transgender e chiunque altro non sia un uomo bianco. Se a ciò aggiungiamo il terzo tassello della sinistra radicale favorevole - soprattutto con Sanders - ad un massiccio ricorso alla spesa pubblica per sostenere milioni di senza lavoro non è difficile arrivare alla conclusione che tali posizioni rischiano di impedire ai democratici di imporsi negli Stati del Midwest e degli Appalachi dove i repubblicani hanno vinto la Casa Bianca quattro anni fa, grazie al massiccio sostegno dell’elettorato bianco. Da qui la necessità per Nancy Pelosi di bilanciare tali posizioni - frutto della reazione a Trump come anche di un forte indebolimento delle posizioni centriste - con un’altra anima dei liberal che si rispecchia nella recente campagna di Billie Sutton che in South Dakota ha fallito l’elezione a governatore riuscendo però a ridurre dal 30 al 3,5 per cento il vantaggio dei repubblicani in uno degli Stati più conservatori. Sutton ha puntato tutto sulle «riforme» necessarie per «rafforzare le istituzioni indebolite dai repubblicani» facendo breccia nell’elettorato avversario. È lo stesso messaggio che 207 eletti democratici hanno messo nero su bianco in una lettera a Pelosi nell’evidente tentativo di spingere il partito lontano da estremismo e populismo. Offrendo una ricetta assai simile a quella che l’ex sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, suggerisce ai liberal: «Per battere Trump bisogna dedicarsi non ad attaccarlo senza sosta, come vorrebbe lui, ma a rubargli i voti». Questo aspro confronto interno ai democratici Usa ha un valore non indifferente per i partiti progressisti europei, chiamati a scegliere in fretta idee e piattaforme per sfidare populisti e sovranisti che gli rubano ovunque voti e seggi.