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 2019  gennaio 06 Domenica calendario

La vitalità del depresso. Recensione del nuovo romanzo di Michel Houellebecq

L’aggressività romanzesca di Michel Houellebecq suscita spesso reazioni mediatiche imbizzarrite. Stavolta qualcuno ha detto che il suo nuovo romanzo – il settimo –è il cantico dei gilets jaunes in rivolta. Ma a leggere Serotonina non viene in mente di associarne l’autore a qualche sia pure confusa ideologia. Il pessimismo di Houellebecq, o semplicemente il suo costante malumore, la sua pervicace irritazione contro la nefandezza del tempo, sono così assoluti e elementari da apparire sinceri e spontanei, caratteriali piuttosto che meditati. Del resto se delle stelle appaiono nel suo cielo cupo, si tratta di due poeti, il disincantato Baudelaire e il tormentato Nerval. Ma Houellebecq è tutt’altro che lirico. Per lui non c’è tragedia, per quanto grave o imponente, che non possa essere raccontata come una commedia, e viceversa non c’è commedia che prima o poi non mostri il suo lato tragico. 
Commedia non significa che ci si debba divertire, anche se nella prima parte del nuovo romanzo ogni tanto affiorano grumi di comicità come bolle su una brulla superficie lavica. Commedia vuol dire un tono, sia dell’umore di chi racconta sia della lingua. Qui la lingua (ben tradotta da Vincenzo Vega) è bassa, corriva, sbadatamente oscena, che è poi il modo di parlare del protagonista, Florent- Claude Labrouste, che, per non ingenerare attese mal riposte, si presenta al lettore a non molte pagine dall’inizio del libro: dice di essere un «uomo occidentale nella sua età di mezzo, al riparo dal bisogno per qualche anno, senza parenti né amici, privo sia di progetti personali sia di veri interessi, profondamente deluso dalla sua vita professionale precedente, avendo affrontato sul piano sentimentale esperienze diverse ma che avevano in comune il fatto di interrompersi, privo in fondo sia di motivi per vivere sia di motivi per morire». Un uomo, sembrerebbe dunque, poco romanzesco. Ma naturalmente non è così, come scopriamo nelle 320 pagine circa in cui Florent (lascio cadere il Claude perché detesta il doppio nome) ci espone la sua storia. Che è la storia di una sparizione raccontata dal punto di vista dello scomparso, con le sue ragioni e le sue strategie di fuga. Fuga da una fidanzata cinica e traditrice, da una professione deludente e da una vita che lo ha deluso ancora di più. 
Apparentemente questo svogliato anti-eroe è un depresso, o almeno è quello che vuole farci credere all’inizio del suo lungo e movimentato monologo, mettendo subito in campo la medicina miracolosa, certo Captorix, le cui molecole sprigionano la serotonina che dà il titolo al romanzo, l’ormone cosiddetto del buon umore, o quanto meno dell’umore che rende sopportabile la vita a chi la trova davvero fastidiosa. I suoi effetti collaterali sono nausea e impotenza: Florent ci spiega che lui non soffre di nausee. Dunque eccolo alle prese con la sua impotenza, che non riguarda soltanto la sfera genitale (anche se la riguarda abbastanza), ma tutta la libido necessaria ad avere a che fare col mondo. Sia pure depresso e impotente, e sebbene manifesti di continuo la sua indifferenza, Florent però, muovendosi narrativamente nel tempo e nello spazio della sua vita, manifesta un’’attenzione tanto idiosincratica e irritata al mondo che lo circonda quanto minuziosamente, quasi appassionatamente accurata. Che si tratti delle orge della sua fidanzata giapponese, che includono la razza canina oltre a quella umana, o del menù di una trattoria di medio livello, che abbia a che fare con lo spogliarello masturbatorio di una bambina di dieci anni davanti a un ornitologo pedofilo o con i meccanismi di una complicata carabina di precisione, nulla gli sfugge, con quell’insistenza sui dettagli della realtà che possono avere solo i mistici, gli indemoniati o le persone accanitamente vitali. Non è neanche insensibile ai sentimenti, come accade in genere nella nebbia depressiva. Anzi, lungo tutto il suo racconto, l’amore perduto per una ragazza incontrata a vent’anni torna con le classiche stimmate della nostalgia sentimentale e col suo strascico di malinconica sensibilità. Naturalmente il movente dinamico del racconto è il fatto che se uno decide di sparire deve muoversi per rendersi introvabile. Introvabile, si direbbe, soprattutto a se stesso. E qui, mentre Florent cerca sempre nuovi rifugi, il racconto tocca il suo centro, il cuore della depressione e dell’impotenza, in una discesa agli inferi che altro non è se non un ritorno alla terra, la madre terra, la terra che ci nutre e il nostro stesso pianeta, al centro di un ordine del creato che si sta trasformando in un minaccioso disordine. 
Da ragazzo Florent aveva un amico, un aristocratico della regione della Manche, in Normandia, suo compagno alla facoltà di Agraria (la stessa facoltà frequentata da Houellebecq negli anni Settanta). La vita li aveva poi divisi, l’uno, l’uomo ora in fuga, al servizio di grandi istituzioni, l’altro al servizio di un’utopia: dare vita, nelle terre ereditate, a una azienda agricola piuttosto che alla speculazione edilizia. Florent l’ha lasciato alle prese con problemi di tutti i generi, la fattoria in difficoltà, una dimora antica difficile da gestire, una moglie scontenta, impicci burocratici. Ma quando, nelle traiettorie della sua sparizione, torna a trovarlo tutto è ormai definitivamente in declino – l’uomo, la casa, la fattoria. La moglie lo ha abbandonato portandosi via le figliolette, la sua impresa agricola funziona sempre peggio, e ormai la crisi investe l’intera regione e l’intera categoria degli allevatori di latte, minacciati dalle nuove normative europee. Mentre Florent impara a sparare, allenandosi con la perfetta collezione di armi dell’amico, l’acme tragico della storia sta per essere toccato. Ci sarà una vittima sacrificale e per l’uomo in fuga la consapevolezza che tutto è perduto. Non solo il rifugio nel sesso femminile (proprio la parte anatomica, nominata nel racconto con la frequenza con cui si ripete un’invocazione scaramantica), ma la civiltà stessa, l’ordine dell’esistenza. «Il rumore di fondo degli allevatori della Manche e del Calvados si era sintetizzato in tragedia»: spari, feriti, un morto, poi un tentativo di ritorno al passato, la ricerca vana e impossibile dell’amore perduto, infine la corsa lenta ma svogliatamente tenace verso il vuoto e una dose maggiore di Captorix, che alla fine, «bianca, ovale, divisibile», più che una pillola è una visione estatica che in realtà non serve a niente, solo a raggirare la vita. 
Il Captorix non può nulla contro la dissipazione delle donne amate né contro gli incontri amorosi inutili, non può salvare la terra devastata dall’agricoltura intensiva, non può sottrarre gli animali a quelle perfette e implacabili macchine di tortura che sono gli allevamenti massicci, nulla contro le infinite trasmissioni televisive sull’arte culinaria, nulla contro l’inferno che ogni uomo costruisce a se stesso. Soprattutto non può nulla contro quello che Houellebecq definisce, tramite il suo esasperato uomo in fuga, «il millennio di troppo», cioè il nostro terzo millennio: di troppo «nello stesso senso in cui per i pugili si parla del combattimento di troppo». Tutto inutile perché quello che manca è l’amore: manca tra genitori e figli, tra l’uomo e la donna, tra l’uomo e gli animali e tra gli umani e la terra. Questo il deficit che tormenta Florent e che la sua pillola non può sanare. Al punto da evocare, nelle righe finali, Dio stesso e l’irritazione di Cristo di fronte «all’insensibilità dei cuori». 
A differenza del suo personaggio, in questo nuovo romanzo Houellebecq è in ottima forma, dopo l’artificioso precedente Sottomissione. E anche se nella parte finale, cioè nel progressivo avvitamento del protagonista nel suo vortice di vuoto, la tensione diminuisce, la serotonina, se non nel protagonista, circola davvero nella prosa del libro, avvincente e potente anche quando è sgradevole, offensiva e estremista. Del resto a stanare il lato oscuro – ma del tutto visibile – del “millennio di troppo”, nel modo in cui si incarica di fare la voce di Florent, solo questa lingua piana, sbrigativa e maleducata è adeguata, ogni registro alto o intonazione tragica suonerebbero affini a quel conformismo consolatorio che si annida nel linguaggio corretto e nella pedagogia dell’ottimismo, che ad autore e personaggio appaiono come la grande mistificazione attuale.