Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2019
Arancione, il quarto colore del vino
Orange is the new white. Non sulle passerelle, ma nelle carte dei vini di ristoranti e wine bar di tutto il mondo. Da New York a Londra, da Milano a Sydney si fa spazio il quarto colore del vino: insieme a bianchi, rossi e rosati ecco anche gli orange wines, una (non) categoria che sta sparigliando le carte del mercato e sta conquistando, stagione dopo stagione, una fetta sempre più larga di appassionati. Vini bianchi in senso lato o – in altre parole – una sorta di ponte tra il mondo dei bianchi e quello dei rossi. Tecnicamente gli orange wines sono vini prodotti da uve a bacca bianca ma vinificati come se fossero dei rossi, dunque fermentati e affinati anche per lungo tempo sulle bucce, da cui prendono il colore.
Ecco perché, soprattutto all’estero, molti ristoratori e sommelier preferiscono utilizzare i termini “macerated” oppure “skin contact” invece del controverso e scivoloso “orange”: i vini bianchi macerati non sono tutti arancioni e racchiudono una moltitudine di caratteri diversi. Alcuni possono essere di colori non marcati – giallo paglierino o dorato – ma sono stati comunque a contatto con le bucce: per capirlo è necessario assaggiarli e scoprire così la grande struttura e ricchezza aromatica. Altri, invece, sono di una tonalità ambrata oppure – come nel caso del Pinot Grigio – ramata. Nuance non convenzionali che potrebbero provocare qualche alzata di sopracciglio in chi non ha familiarità con questo stile di vinificazione, in cui il contatto prolungato del mosto con la buccia e i vinaccioli consente di estrarre le sostanze – tra cui flavonoidi, tannini e terpeni – che garantiscono colore, aromi, struttura e capacità di invecchiamento.
Un metodo antichissimo
Non è certo un espediente di marketing. In Georgia, nel Caucaso, già 5mila anni fa i vini erano prodotti così: macerati sulle bucce in grosse anfore interrate dette qvevri. La tradizione della macerazione, comune fino al Dopoguerra anche in Italia, era andata quasi perduta a favore delle moderne tecniche di vinificazione prima di tornare in auge alla fine degli anni Novanta grazie all’intuizione di vignaioli pionieri come Joško Gravner e Stanko Radikon a Oslavia, in Friuli. I tempi erano maturi, in questo fazzoletto di terra del Collio Goriziano al confine con la Slovenia, per la manifestazione di un pensiero alternativo e rigoroso, improntato al rispetto della natura, all’espressione del terroir e al ritorno al significato originario del vino.
Gravner, già produttore affermato, inizia nel 1997 a recuperare la pratica della macerazione, senza controllo della temperatura, filtrazione, chiarifica e uso di solfiti: «All’epoca non mi sono posto il problema del mercato o dei gusti del pubblico – spiega Gravner –. Non ero soddisfatto dell’approccio, che ritenevo troppo invasivo, e pensavo che il risultato fosse troppo lontano dal frutto che portavo in cantina». Da oltre un quarto di secolo nella sua vigna non si utilizza la chimica: «La concimazione per la terra è come la droga per l’uomo – conferma – : ti dà la forza e ti uccide. Nel caso della terra uccide i microrganismi che tengono il terreno vivo». Gravner andò per la prima volta in Georgia nel 2000 per poi iniziare a vinificare, dall’anno successivo, in grandi anfore in terracotta interrate, rigorosamente georgiane «perché la loro argilla non contiene piombo». Per Gravner la formula è apparentemente semplice: meno attrezzi si hanno in cantina, più qualità si ottiene. A patto di partire dalle uve migliori e più sane. La Ribolla Gialla è l’unica varietà bianca (insieme al Pignolo, per quanto riguarda il Rosso) a cui questo filosofo della sottrazione ha deciso di dedicarsi nel futuro, avendo interrotto già da tempo la coltivazione di Sauvignon, Pinot Grigio, Chardonnay e Riesling Italico, uvaggio alla base del mitico (e ormai quasi introvabile) Bianco Breg: «Se la nostra è una terra da Ribolla, perché sprecarla con altre varietà?».
Alla guida dell’azienda – 15 ettari in produzione per un numero di bottiglie che varia da 15 a 35mila a seconda dell’annata, con statunitensi e giapponesi in testa ai cultori del mercato estero – c’è anche la figlia Mateja: «Il filo conduttore del nostro pensiero è sempre stato la pulizia: togliere tutto quello che non è indispensabile. Lasciare che la natura si esprima, senza volerla comprimere o concentrare. Chi approccia i nostri vini prende consapevolezza che la natura è variabile e capisce l’influenza di ogni annata e di ogni vendemmia. In questo tipo di vini ci possono essere piccoli difetti ma è bene non perdere di vista il limite dove la sbavatura smette di essere piacevole».
Vini diversi per colori e profumo
Ai neofiti di questo mondo consigliamo la visione del breve documentario Skin Contact: Development of an Orange Taste – in cui sono protagonisti, oltre a Gravner, altri grandi artigiani come Angiolino Maule e Daniele Piccinin – ma soprattutto il libro Amber Revolution: How the World Learned to Love Orange Wine di Simon J. Woolf, il testo più solido e accurato finora pubblicato sul tema.
«La diversità è sempre una ricchezza – prosegue Mateja – ma l’importante è non spaventare il consumatore e non avere un atteggiamento di superiorità. Credo che la prima cosa che affascina di questi vini sia il colore, in grado di comunicare la lunga storia che hanno alle spalle, e i profumi, diversi da quelli a cui siamo abituati. In bocca hanno l’eleganza, l’acidità e la freschezza dei bianchi e la struttura e la complessità dei rossi». E sono anche molto versatili negli abbinamenti: «A patto – conferma – di aver voglia di divertirsi senza troppi tecnicismi e di non sottostare ai diktat delle degustazioni. La cosa fondamentale è la temperatura di servizio, che non deve mai essere troppo fredda, a differenza dei bianchi: quella ideale è tra 12 e 16 gradi». I vini Gravner, degli assoluti per purezza e armonia, escono sul mercato dopo un ciclo di 7 anni dalla vendemmia, addirittura 14 o 15 nel caso delle selezioni: «Il vino deve uscire quando è pronto, non ci adattiamo alle mode e alle richieste del mercato. Serve imparare ad aspettare: le cose buone hanno bisogno di pazienza e un vino lo giudichi solo sulla lunghezza».
Coraggio da giovane vigneron
Oggi tanti giovani vigneron, dalla Liguria alla Sicilia, dalla Spagna alla Francia all’America, stanno sperimentando un metodo produttivo più naturale e artigianale: «Sicuramente – conclude Mateja – abbiamo ispirato e dato coraggio a molte persone. È un pensiero più ampio che non riguarda solo il vino: dimostra che un’altra strada è possibile». Avvertenza finale: guai a dire “orange” in presenza di Joško. «Se un vino è arancione – contesta – vuol dire che è già ossidato. I miei vini sono ambra, un colore vivo!».