Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2019
A tu per tu con l’immunologo Alberto Mantovani
Alberto Mantovani sposta le tende per impedire ai raggi del sole di filtrare sul tavolo da lavoro del suo ufficio di direttore scientifico dell’Humanitas di Rozzano, hinterland sud di Milano. «È una meraviglia», dice guardando fuori. «Il sole, il prato e gli studenti di tutte le nazionalità che socializzano come nei campus dei college americani».
Dalla finestra, sulla sinistra, si intravede l’edificio della facoltà di medicina dell’Humanitas che ospita la biblioteca, la mensa e il caffè. A destra, il centro congressi. Spingendo oltre lo sguardo, di fronte, la sagoma dell’ospedale e, in lontananza, i palazzi della prima periferia milanese. È una giornata limpida, tipica degli inverni padani con la nebbia dell’alba che si apre nella tarda mattinata. Un’atmosfera testoriana, da Nebbia al Giambellino, il quartiere di Milano in cui l’immunologo è nato e abita da sempre. «Vivo ancora intensamente il quartiere. Io e mi moglie Nicla – siamo sposati da 40 anni – facciamo parte dell’associazione di volontariato Campo Olimpia. L’altra sera abbiamo festeggiato lì, con gli amici d’infanzia, i nostri 70 anni. Ho lasciato il Giambellino solo per i periodi di studio e di lavoro fuori dall’Italia». Non pochi, per la verità.
Tutto inizia nella seconda metà degli anni Sessanta proprio all’estero, in Inghilterra, dove il giovane Mantovani, dopo la maturità, va a fare un anno di servizio civile in un ospedale psichiatrico. Lì scatta la scintilla della medicina. «Volevo studiare fisica – racconta – ma il contatto con quelle persone che avevano bisogno di tutto mi ha convinto a iscrivermi a medicina. Come altri miei quattro compagni di classe del liceo Manzoni, uno dei quali ha speso tutta la vita in Africa. Probabilmente c’era un seme nella nostra formazione, ma non saprei dire cosa fosse».
È un viaggio lunghissimo quello di Mantovani. Facoltà di medicina a Milano, specializzazione in patologia medica a Pavia, di nuovo l’Inghilterra e poi negli Stati Uniti, dove affina le conoscenze di immunologia e inizia lo studio dei tumori.
Il ritorno a Milano al Policlinico, all’Istituto Mario Negri e, infine, alla direzione scientifica dell’Humanitas. Oltre quarant’anni di cura e ricerca, di sfida continua al limite della conoscenza. Spesso controcorrente.
Il primo snodo della carriera è in Inghilterra, a metà anni Settanta, nei laboratori di Peter Alexander e Bob Evans, dove il giovane Mantovani capisce che lo studio sulla parte più primitiva del sistema immunitario guidato dai due grandi scienziati trascura il rapporto dei macrofagi con le infiammazioni. Mantovani, incoraggiato dai due luminari («una lezione di umiltà e libertà») sviluppa una ricerca diversa e scopre che i macrofagi invece di difendere l’organismo dal cancro passano al nemico diventando «poliziotti corrotti», come li definisce lo scienziato milanese. Un cambiamento di paradigma per l’intera comunità scientifica: Mantovani dimostra che le infiammazioni, fino ad allora trascurate, possono contribuire all’insorgere e allo sviluppo dei tumori. «È stato un momento che ha segnato la mia carriera, umana e professionale. Ma all’inizio, ai convegni, mi davano del pazzo, ero totalmente controcorrente. Mi sentivo come nell’Onda di Hokusai, uno dei miei quadri preferiti. Una barca minuscola, quasi invisibile, che affronta la gigantesca muraglia d’acqua, anche con un pizzico di incoscienza».
Mantovani ama le metafore. L’arte, una delle sue grandi passioni, ne fornisce a piacimento. «In ogni presentazione scientifica, da quelle di più alto livello a quelle divulgative, inserisco un quadro per semplificare i concetti. La Pesca miracolosa di Duccio di Boninsegna e i mosaici del museo del Bardo di Tunisi mi aiutano per spiegare la ricerca sui geni. Le cinque ballerine della Danza di Matisse sono le subunità della proteina C-reattiva. Le figure di Kandinsky mi aiutano con la sottoclassificazione delle cellule. L’Amorino dormiente di Caravaggio, il mio pittore preferito, è affetto da artrite reumatoide giovanile, una malattia sconfitta dall’immunoterapia...».
L’arte, e anche la letteratura, fanno comprendere quanti progressi ha fatto la medicina e quanti ancora ne può fare. «Le nostre vite di ricercatori sono segnate dal fallimento. In cento anni siamo stati respinti infinite volte, ma abbiamo sempre cercato strade diverse. L’importante è non aver paura di sognare. Oggi, con l’immunoterapia curiamo il venti per cento dei tumori. Il sogno è arrivare al cento per cento, cominciando a capire perché cervello e pancreas sono immunoresistenti. Recentemente, quando a un incontro della manifestazione culturale di Milano Book City un malato mi ha fatto il segno dello zero con la mano per quantificare i progressi fatti per la cura del cancro al pancreas, mi si è gelato il sangue. Un secondo dopo mi è scattata la molla della sfida. Finora abbiamo fallito, ma da qualche parte c’è una soluzione».
Lo chiedono i malati, e il richiamo è fortissimo, ma c’è la consapevolezza che non ci sono scorciatoie. Ci sono la ricerca, il team, il metodo, l’impegno quotidiano dei singoli e collettivo. Mantovani, per spiegarlo adopera un’altra delle sue metafore e utilizza un’altra delle sue passioni, la montagna. «Sono uno scialpinista non particolarmente bravo, ma in montagna si segue una guida, si va legati e si scoprono i propri limiti per cercare di superarli. Tornare indietro e riprovarci con un’altra spedizione non è una sconfitta ma una dimostrazione di consapevolezza. La montagna ti insegna a stare insieme. Non ci sarebbe ricerca senza il team, senza i tecnici, senza i malati e senza gli studenti, senza il metodo».
I tecnici, soprattutto quelli italiani, spiega Mantovani, sono spesso la chiave dei successi.
Ne fa un lungo elenco citandoli per nome e raccontando aneddoti legati alla loro collaborazione. «Beppe Peri, malato di Sla e immobile a letto, dava suggerimenti per trovare una soluzione tecnica a un problema. Senza il loro lavoro, le nostre intuizioni sarebbero difficilmente applicabili. I nostri tecnici sono gli eredi della grande tradizione artigiana italiana, sono gli Stradivari della scienza. Gli studenti, i giovani ricercatori, sono il pungolo necessario. Hanno spirito critico, insinuano dubbi, ti costringono a non sederti, a imparare, a utilizzare le nuove tecnologie».
Mantovani considera imprescindibili i fondamentali dai quali emerge l’intreccio tra la dimensione etica e la scienza. C’è il dovere di dire anche verità scomode. Sui vaccini, per esempio. «Non esistono opinioni ma dati», spiega Mantovani. Da genitore non mi piaceva obbligare i miei figli a mangiare le verdure. Figuriamoci se mi piace imporre alla gente di vaccinarsi. Ma se l’Italia scende sotto il 95% di vaccinati e l’Oms la segnala come Paese a rischio, non c’è altra strada. Non possiamo permetterci il ritorno dei morti di pertosse, è successo a Desio. Basta leggere Nemesi di Philip Roth per accorgersi che la poliomelite e il polmone d’acciaio erano una realtà nella prima metà del secolo scorso e negli Stati Uniti. Abbiamo degli obblighi morali e sociali nei confronti dei bambini malati di cancro che non possono vaccinarsi e li dobbiamo proteggere vaccinando gli altri. Anche la California, lo Stato in cui ci si può drogare liberamente, ha reso obbligatori i vaccini dopo un’epidemia da morbillo. Nell’Europa dell’Est, caduto il comunismo e finiti i programmi di vaccinazione, sono tornati i morti per difterite. Ho otto nipoti, uno l’ho vaccinato personalmente».
Ancora, non si può tacere sugli azzardi morali. «Mi ha indignato l’esperimento cinese che ha fatto nascere due gemelle con il Dna modificato. Non ne capisco l’utilità terapeutica e scientifica. Trovo aberrante aver comunicato i risultati su YouTube. Una follia. La comunità scientifica ha regole precise di validazione e pubblicazione degli esperimenti a cui tutti siamo tenuti ad attenerci. Le riviste scientifiche sono la garanzia del valore e della serietà degli esperimenti».
Su una delle pareti dello studio è affissa una copertina del numero speciale del Journal of Autoimmunity, la pubblicazione internazionale più prestigiosa della disciplina, interamente dedicata a Mantovani. Il professore si schermisce. «I premi, i riconoscimenti della comunità scientifica sono l’attestato di stima che il mondo accademico dà agli scienziati. Fanno piacere, certamente, ma non lavoriamo per quello». Quando gli si fa notare che il suo nome è stato accostato più volte al Nobel, Mantovani ricorre a un’altra delle sue metafore, sul calcio, altra sua grande passione da tifoso (interista) e praticante (da giovane era un difensore roccioso). «Vince uno scienziato all’anno, come il Pallone d’oro. Chi ha vinto ha sempre meritato, scienziati e atleti di primissimo livello. Nulla da dire. Ma i premi non sono scolpiti sulla pietra. Lo scopritore delle funzioni del timo, Jacques Miller, non ha vinto il Nobel. Paolo Maldini e Giacinto Facchetti non hanno vinto il Pallone d’oro. Ma è nella logica dei premi».
Per essere stato un difensore «con scarso talento ma molta grinta» questa è un’uscita dall’area di rigore di gran classe, senza buttare la palla in tribuna.