il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2019
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Biografia di Vittorio Storaro raccontata da lui medesimo
La luce con Vittorio Storaro non avvolge e illumina solo i film; la luce con lui diventa un’esperienza filosofica, una ricerca religiosa (“A Kathmandu con Bertolucci ho pensato: ‘Qui possiamo comprendere il senso della nostra vita. E siamo pure pagati’”), una crescita artistica, con Caravaggio protagonista (“Quando ho scoperto la sua opera, la mia vita è cambiata. Volevo smettere di girare”), o il confronto con gli dei del cinema (“La scena ombra e luce di Apocalypse now è nata insieme a Brando dopo alcuni giorni di crisi. Solo lui poteva girarla così”). E la luce lo ha illuminato sul palco degli Oscar, ben tre come miglior fotografia, il primo proprio con Apocalypse Now, poi Reds e L’ultimo imperatore. È il maestro, come dicono a Hollywood (e non solo lì), e tutto dopo essere partito “da una famiglia modesta; come dice mia moglie, ‘ci siamo sposati giusto con lo spazzolino da denti’”.
Origini modeste, dice.
Meglio dire “povere”: quando ho iniziato a studiare fotografia, la mattina la passavo sulla teoria, mentre il pomeriggio, per potermi mantenere, lavoravo dentro un laboratorio fotografico. Però alla fine sono anche entrato al Centro Sperimentale.
Primi contatti con il cinema da giovanissimo.
A 21 anni Marco Scarpelli (storico direttore della fotografia) iniziò a propormi qualche lavoro. Rifiutavo. Non mi sentivo pronto.
Come si è avvicinato al suo mondo?
Anche grazie a mio padre, proiezionista alla Lux.
Il suo esordio.
Dopo anni di esperienza da operatore, il debutto come autore della fotografia arriva nel 1968 grazie a Giovinezza giovinezza di Franco Rossi, e lì in qualche modo mi sentivo tranquillo, sicuro di quanto avevo studiato e appreso dal vivo; ed è stato meraviglioso, tanto che due giorni prima della “fine riprese”, sono scoppiato a piangere. Mi vede l’aiuto regista: “Cos’hai?”. “Tra poco sarà tutto finito”. “Tranquillo, è il cinema”.
Nel tempo ha riprovato quelle sensazioni?
All’epoca non credevo, poi mi ha chiamato Bernardo (Bertolucci) e offerto gli stimoli giusti, in particolare con Il conformista, negli anni diventato il film più studiato al mondo, specialmente nelle università americane. Anche per Francis Coppola è una pellicola centrale.
Lei con Coppola ha vinto il primo Oscar.
Appunto, grazie a Il conformista: lo vide a New York, poi pretese una copia in sedici millimetri; lo proiettava nei momenti di cattivo umore, a colleghi e amici; poi mi ha chiamato.
Bertolucci.
L’ho visto all’opera nel 1964, e appena conosciuto rimasi sconvolto: scriveva con la macchina da presa, era incredibile ammirarlo sul set, come si muoveva, i tempi, la gestualità. Rimasi scioccato. E per anni rifiutai di debuttare nella direzione della fotografia: prima volevo raggiungere quel livello.
Era il set di “Prima della rivoluzione”…
Ingaggiato come operatore di macchina: film arrivato dopo un lungo periodo a casa durante il quale ho studiato, poi un amico chiama: “C’è un giovane regista, molto bravo, e tra poco inizia le riprese”. Accettai, dovevo guadagnare.
L’incontro chiave…
Sempre Bernardo, a lui devo tutto, e come dicevo, le sue qualità le ho intuite subito, e piano piano abbiamo affinato la nostra complicità: lui metteva in scena in modo cosciente e suggeriva in modo inconscio; allo stesso tempo, io tramutavo in luce e in ombra le sue indicazioni; il tutto molto naturalmente, e dopo attenta psicoanalisi.
Bertolucci subì attacchi per la scena del burro in “Ultimo tango a Parigi”.
Un anno fa mi chiamano delle persone: “Hai visto che ha combinato il tuo amico Bernardo?”, “Cosa?”. “Ha incitato Brando a stuprare davvero in scena Maria Schneider”.
E lei?
Ho risposto e rispondo che non è possibile: io ero lì, e quella sequenza è nel copione: tutti sapevano.
Compresa la Schneider.
Consapevole di quel tipo di percorso e ricordo esattamente quella mattina, ogni attimo da quando sono arrivato per preparare le luci del set.
Un giorno particolare…
Perché Brando preferiva una sola inquadratura, non amava ripetere due volte la scena con differenti angolature; quindi Bernardo puntava la cinepresa sui due attori, mentre la secondaria, con il primo piano di lei, era sulle mie spalle. Ero a un metro e mezzo da loro. E Marlon non si è mai sbottonato i pantaloni.
Recitazione pura.
Se crediamo a tutto quello che vediamo sullo schermo, allora Brando è morto su un terrazzo di Parigi nel 1972.
Il rapporto tra Brando e Bertolucci.
Marlon in quel periodo aveva sbagliato un paio di film e Il padrino doveva uscire. Era in difficoltà. Anche Bernardo aveva perso Trintignant, troppo impegnato. Insieme passano due settimane a Los Angeles, si parlano, guardano Il conformista, alla fine Marlon accetta, a una condizione: “Aspetta sei mesi, ho alcuni problemi familiari”. Tutto slitta da metà agosto a metà gennaio, e per me è una fortuna: potevo affiancare la luce artificiale a quella naturale.
Sì, ma loro due?
Tutti i giorni, prima di girare, si incontravano per sviluppare il personaggio. Era un perenne confronto, limavano.
Bertolucci come reagì alle polemiche?
Ha avuto il pudore di non andare a Cannes per il restauro di Ultimo tango a Parigi, temeva domande stupide.
Lei ultimamente lavora con Woody Allen, anche lui entrato nel giro delle accuse.
Ci ho girato tre film, lo conosco molto bene…
E…
Tempo fa una giornalista di Variety gli chiede un giudizio su Weinstein, lui risponde con “non so cosa sia successo, se è vero è molto grave. Temo solo per sua moglie, i figli e una possibile caccia alle streghe”. Termina la frase, la giornalista sentenzia: “Non andrò a vedere il suo film, non ne parlerò, inviterò tutti a evitarlo e so che deve andare a Parigi: ci resti con Polanski”.
Condannato a priori.
Amazon blocca la distribuzione di A rainy day in New York già pronto per l’uscita, nessuna promozione, non entra nelle nomination nonostante ne avesse le possibilità. Non solo: Woody gira un film l’anno ma gli hanno consigliato di fermarsi perché le attrici potrebbero rifiutarsi di stare su un set con lui, temono attacchi dalle colleghe. Il prossimo film, già scritto, lo gireremo in Europa..
Lei è sconfortato.
Hanno rallentato un’industria.
C’è separazione tra uomo e artista?
Ognuno è ciò che è a seconda di come si esprime. Comunque 20 anni fa Woody non lo frequentavo, ma c’è un dato: ha subìto due processi, sempre giudicato innocente; e gli esami medici della ragazzina che lo accusava hanno testimoniato che era illibata.
Come ha lavorato con Allen?
Gli ultimi film di Woody non erano tanto suoi, ma solo diretti: molto simili tra loro; così quando mi hanno contattato per la prima volta, ho chiesto una sinossi, meglio una sceneggiatura, per capire se la storia mi riguardava.
Risposta?
“Quando chiama Allen non si pongono richieste”. E io: “Devo capire se ho un’idea, non vado sui set ad accendere lampadine del soffitto”.
Finale?
Allen è stato delizioso e mi ha dato il copione: è una persona rara.
Con la sua preparazione ha mai messo in difficoltà il regista?
Se accade c’è un errore, e basta leggere la mia filmografia per capire con chi mi sono trovato bene, e con chi ho lasciato perdere; ai registi posso suggerire alcuni passaggi, proporre delle inquadrature. La luce è solo mia.
Con “Caravaggio oltre la luce” di Longoni ha preso altra forma.
La folgorazione è arrivata dopo essere entrato dentro la chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, e aver ammirato la Vocazione di San Matteo: quando l’ho visto, ho pensato di non aver capito un cavolo fino ad allora. Caravaggio, con un’immagine, ti costruisce un ragionamento universale. Dissi a mia moglie: “Mi fermo e studio di nuovo”.
Quanti anni aveva?
32 e nel curriculum Ultimo tango.
Risposta di sua moglie?
“Caro Vittorio, ci siamo sposati solo con uno spazzolino in mano, stiamo crescendo, abbiamo una casetta, una figlia di quattro anni, il piccolo uno, vai a lavorare”.
Pragmatica.
Da quel giorno ho capito che la mia scuola era il cinema: ogni film un motivo di crescita e un modo per approfondire; se giravamo su Giordano Bruno, studiavo; ogni set un mondo nuovo da scoprire, mi sento un eterno studente.
Con Caravaggio scinde l’uomo dall’artista?
È stato poco in armonia con se stesso: da ragazzo abbandonato e abusato, poi con la malaria addosso; quando arriva a Roma, si ferma davanti a Porta San Sebastiano e non ha il coraggio di entrare, così si piazza sull’Appia Antica e dorme dentro una tomba, e ciò ha due significati: il volere tornare nel ventre della madre terra e un senso di morte prematura; ma quel tipo di carattere e di esperienze hanno creato la magia.
Le è entrato dentro.
Se vede Giordano Bruno o Apocalypse now ci sono zampate di Caravaggio: allora non me ne accorgevo, oggi sì.
In “Apocalypse now” Brando è caravaggesco.
Su quel set faraonico e funestato da avversità, Marlon arrivò a due terzi della lavorazione e avvolto da dubbi legittimi: doveva entrare nella parte, ed è complicato riuscirci quando si è così avanti.
Quindi?
Si ferma tutto. Gelo, o panico, tra i presenti. Poi un giorno vado da Coppola e lo trovo sdraiato e sconfortato, accanto a lui solo la moglie: “Vittorio sono stanco, non so più come fare con Marlon. Forse ho sbagliato”. Vado da Marlon, gli parlo, gli mostro la mia idea di visualizzarne il volto lentamente tra luce e ombra per la sua prima e tanto attesa entrata in scena, e lui all’improvviso si placa. E inizia la magia. Coppola era stupefatto…
Una delle scene topiche del cinema.
Un attore normale non avrebbe compreso. Lui aveva capito di doversi rivelare come fosse un mosaico.
Oltre Caravaggio, chi l’ha influenzata?
Nel 1975 sono a Parma, preparo Novecento con Bernardo: una domenica decido di andare a Milano per Il Cenacolo; lì davanti resto scioccato dalla perfezione della prospettiva; mi informo e scopro che è esattamente una volta per due (due volte la base per una d’altezza). Geniale. Semplice e perfetto. Così ho iniziato a lasciare dei segni sulla macchina da presa: le informazioni importanti della pellicola devono restare all’interno.
La prima volta che è salito per prendere l’Oscar.
Mai l’avrei creduto.
E al momento della proclamazione?
Non riuscivo ad alzarmi dalla poltrona, ho sentito una sorta di lama trafiggermi: è stata mia moglie a spronarmi.
Stessa scena con “Reds”.
Lì non avrei mai creduto di vincere con un film su un comunista statunitense, e invece quando mi hanno chiamato hanno suonato L’internazionale e un po’ sorridevo…
Lei non era comunista.
Simpatizzante, non dichiarato come Bernardo.
Terzo Oscar: “L’ultimo imperatore”.
Bernardo era in crisi per alcuni film non andati bene, Luna era stato giudicato incestuoso: quando sono arrivato all’Oscar ero più nervoso delle volte precedenti, quella chiamata sul palco è stata una liberazione.
Ha lavorato anche in teatro.
Con Ronconi volevo studiare le immagini senza filtri, volevo capire se i vari passaggi necessari alla pellicola, alterano o meno il mio lavoro.
Alla fine…
I filtri completano la mia espressione, sono parte del lavoro; però uno dei piaceri più grandi è stato illuminare il Campidoglio in occasione dei Mondiali del ’90, e pochi anni fa i Fori Imperiali, con 35mila persone ad attendere. Oggi mi dispiace solo di quanto sta accadendo a Firenze…
Cosa?
Un progetto meraviglioso studiato con mia figlia per il Battistero e poi bloccato, senza che nessuno dia una spiegazione valida. Eppure credo di meritarla.
Alla fine, tutta la sua carriera, da dove viene?
Da mio padre che per anni ha proiettato immagini, ha sempre sognato di farne parte. E il suo sogno è diventato il mio.