il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2019
Ratzinger e il dolore necessario
Per la prossima Pasqua verrà pubblicato dall’editore Cantagalli un libro dedicato a Joseph Ratzinger che contiene molte delle sue omelie fra le quali è particolarmente interessante quella che tenne nel 1978 a Unterwossen in Germania. Ratzinger, a parer mio, è stato il più spirituale degli ultimi tre Pontefici. Wojtyla è stato un Papa soprattutto politico e troppo immerso nella mondanità e nella modernità, di cui usava con grande disinvoltura, e direi spregiudicatezza, i mezzi (TV, jet, viaggi spettacolari, creazione di “eventi”, concerti, gesti pubblicitari, “papamobile”, “papaboys”) fino a confondersi con essa.
Noi non abbiamo bisogno di una mondanità che ci circonda da tutte le parti, che ci esce sin dalle orecchie, di questa mondanità ne abbiamo fin sopra i capelli, abbiamo bisogno di qualcosa che dia un senso alla nostra vita che poi sarebbe la ragione in ditta della Chiesa, che sembra però aver smarrito anch’essa, nella enorme confusione portata dalla modernità, la via maestra. In quanto a Papa Bergoglio, non meno narcisista, esibizionista e superbo di Giovanni Paolo secondo (basta pensare al nome che si è scelto, Francesco, il più grande santo che Madre Chiesa abbia espresso, pauperista ad onta degli adoratori dell’unico dio rimasto all’Occidente, il Dio Quattrino) nella sua smania di voler piacere a tutti finisce per non convincere nessuno.
Ne parlo in partibus infidelium, da non credente. Ma non è da pensare che in chi non crede sia assente il sentimento che l’uomo non sia fatto soltanto di materia ma anche di spirito, sia pure uno spirito che non si immortala com’è invece il credo di tutte le religioni monoteiste.
Ratzinger afferma in sostanza, all’interno di una complessa cosmogonia che ha comunque al suo centro la divinità, che il dolore è necessario all’essere umano proprio per conservarsi tale. È un’aporia, che come molte altre aporie, era ben presente nel greco e laico Eraclito, che dice: «È la malattia che rende dolce la salute, la fame rende piacevole la sazietà, la fatica il riposo». Prendiamone un’altra di queste aporie. La morte è necessaria alla vita, non ne è solo la conclusione inevitabile, ne è la precondizione. Senza la morte non ci sarebbe nemmeno la vita.
Sono concetti elementari questi. Che però l’Illuminismo, osando proclamare un diritto alla ricerca della felicità, che poi l’edonismo straccione contemporaneo ha declinato tout court in un diritto alla felicità, rendendo così, ipso facto, l’uomo infelice, è andato via via perdendo per strada. Non esiste alcun diritto alla felicità. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità. Non un suo diritto. E di questi diritti impossibili è piena la nostra società e la nostra testa.
Il dolore è quindi consustanziale all’uomo, per volere divino secondo Ratzinger. Ma non c’è bisogno di scomodar Dio. Il dolore fa parte della struttura psicologica profonda dell’uomo, questo essere tragico leopardianamente incapace di trovar quiete, il solo animale del Creato lucidamente consapevole della propria fine. Ma il dolore ha anche un’altra connotazione. Per usar Nietzsche e le sue parole: «Ogni malattia che non uccide il malato è feconda». Non si tratta però di andarsi masochisticamente a cercare il dolore, proprio o altrui, in una sorta di gioco di specchi e controspecchi, alla maniera della Madre Teresa di Calcutta. Non ce n’è alcun bisogno. Abita già in noi.