Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2019
Facebook lavora alla sua valuta
Vikram Mansharamani ha scoperto il bitcoin nel marzo 2017: è entrato quando era attorno ai 1.000 dollari e a dicembre, con il picco a ridosso di 20mila dollari, aveva già incassato una ricchissima plusvalenza. Ma a lui piace vincere facile: è docente ad Harvard e ha scritto Boombustology, un “vademecum” per imparare a “riconoscere le bolle finanziarie prima che scoppino”. Bitcoin era da manuale. Il cliché del tassista che ne parlava era rispettato, ma anche l’effetto leva giunto al limite: non è un caso che il debutto dei futures al Chicago Mercantile Exchange, che ha aperto le scommesse al ribasso, abbia coinciso con l’inizio della caduta, che oggi l’ha portato attorno a quota 4.000. Ma Mansharamani sottolinea il criterio che George Soros indica come “riflessività”: le quotazioni che salgono senza alcun legame con la realtà. In effetti nell’ultimo scorcio del 2018, di pari passo con l’impennata dei prezzi, era un fiorire di iniziative e startup che sfruttavano l’hype ingiusitificato: basti il caso della società di succhi di frutta che ha visto triplicare le quotazioni in una notte dopo aver semplicemente aggiunto “Blockchain” nella ragione sociale.
Evidentemente si era perso qualsiasi riferimento con la realtà. «Il bitcoin è crollato lo scorso anno per lo stesso motivo per cui l’anno prima si è impennato: la speculazione. La maggioranza dei detentori di criptovalute le hanno acquistate solo nella prospettiva di rivenderle a un prezzo più alto. Nel momento in cui l’ottimismo ha iniziato a vacillare, tutti costoro si sono precipitati a vendere», commenta Luca Fantacci, docente di storia economica e finanziaria alla Bocconi. Alcuni, come il docente di Harvard, sono riusciti a uscirne in tempo con lauti guadagni, molti altri, soprattutto gli ultimi arrivati, sono rimasti con il cerino in mano e hanno accumulato perdite su perdite. «Può essere stata una scossa salutare – prosegue Fantacci -, che contribuisce a sgomberare il campo dagli speculatori e a lasciare spazio a chi davvero è interessato a utilizzare bitcoin come mezzo di pagamento per transazioni economiche reali. Oggi il prezzo sembra essersi stabilizzato: dipende meno dalla speculazione e più dai fondamentali, ossia dai fattori dell’offerta e della domanda. Da un lato il prezzo è sostenuto dalla domanda di chi lo utilizza per operazioni commerciali. Dal lato dell’offerta è influenzato dai costi di produzione, principalmente legati al mining. Non è un caso che il prezzo di bitcoin si sia assestato, come in passato, intorno al costo di produzione medio prevalente».
«La volatilità non è un fenomeno patologico: domanda e offerta si incontrano sul mercato e tentano di mettere a fuoco il valore di un bene – aggiunge Ferdinando Ametrano, direttore del Digital Gold Institute -. Bitcoin è un bene controverso, perché si candida a diventare l’equivalente digitale dell’oro: per la prima volta in ambito digitale abbiamo qualcosa trasferibile ma non duplicabile. Bitcoin ha comunque grandi potenzialità perché è un asset che non ha correlazione con le altre asset class; i patrimoni gestiti globali ammontano a 100 trilioni di dollari: se solo il 2% diversificasse in bitcoin il suo prezzo arriverebbe a 100mila dollari». Calcoli teorici, certo, che si fatica a comprendere per uno strumento, ancora non ben definito dal punto di vista finanziario, che non è espressione di un’economia o di una realtà economica. «Come strumento di pagamento si diffonde soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, sulla base della forza di una valuta sganciata dal mondo bancario e da instabilità economica e politica: potrà quindi avere un valore in ottica di portafoglio come asset di asset», aggiunge Edoardo Fusco Femiano, market analist di eToro, broker particolarmente attivo sulle criptovalute, che si è cimentato nel tentativo di dare un valore al bitcoin: «C’è un valore d’uso legato all’utilizzo e alla domanda che riesce a soddisfare: se si prende come riferimento il mercato delle rimesse internazionali parliamo di oltre 600 miliardi di dollari, in crescita del 5% l’anno». Ma si può anche ipotizzare una stima sulla base dell’attualizzazione del valore futuro: esercizi puramente accademici che danno nei due casi un valore superiore e uno attorno a quello attuale di mercato.
Certo è che il crollo delle quotazioni, che ha portato la capitalizzazione delle criptovalute da un picco di 830 miliardi di dollari fino a 130 miliardi, ha assestato un duro colpo alla ambizioni del progetto nato giusto dieci anni fa dall’idea dell’anonimo Satoshi Nakamoto: il bitcoin, nato con il primo blocco della sua blockchain nel gennaio 2009, è ben lungi dall’essere la nuova valuta autonoma e indipendente da ogni autorità, così come Ethereum a diventare un computer globale decentrato. Per di più l’immagine del criptomondo rimane caratterizzata dalla scarsa trasparenza. Con un mercato molto concentrato dove l’80% dei bitcoin è detenuto da meno dell’1% degli investitori, il rischio di manipolazione dei prezzi è evidente. Mentre le prospettive sono condizionate dall’opacità di un mondo per sua natura “anonimo” che è stato sfruttato nel passato – e in parte ancora oggi – per traffici illeciti e per riciclaggio di denaro.
Con la liquefazione delle quotazioni anche i progetti legati al criptomondo si stanno ridimensionando: un incubatore consolidato come ConsenSys starebbe mettendo mano a un dimezzamento dei suoi 1200 dipendenti per il dimagrimento della divisione startup, così come la cinese Bitmain, uno dei pochi “unicorni” del mondo cripto che si prepara alla quotazione a Hong Kong. Anche le banche di Wall Street, a partire da Goldman Sachs che aveva ipotizzato un desk apposito per criptovalute, hanno riposto nei cassetti i progetti, in attesa di tempi migliori. Anche l’InterContinentale Exchange, detentore del Nyse, si preparerebbe a rinviare il lancio della sua piattaforma per asset digitali che avrebbe dovuto partire a gennaio.
Tra i suoi potenziali clienti figura Starbucks, che avrebbe in mente di aprire ai pagamenti in criptovalute. Mentre Facebook starebbe lavorando a una sua criptovaluta per abilitare i pagamenti via WhatsApp. E potrebbe essere una “stablecoin”, legata a una valuta reale, per ovviare al rischio di alta volatilità, come quella di questi ultimi due anni.