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 2019  gennaio 05 Sabato calendario

La leggenda del pianista del Madison

Con il piattino di hamburger attraversa la sala stampa nel ventre del Madison. Nessuno sembra conoscerlo. Corporatura minuta, completo scuro, capelli lisci e occhiali, si siede in fondo, alza lo sguardo e quasi arrossisce. «Da bambino sognavo di suonare qui con una band rock…». Ray Castoldi, 55 anni, in un certo senso ha coronato quel sogno. Da trent’anni scatena i tifosi, suonando live durante le partite di basket e hockey su ghiaccio, dei Knicks e dei Rangers. Quando sentite la classica progressione di accordi fa-sol e sol-la e il pubblico urlare de-fence de-fence!, o quando parte la carica e i tifosi gridano charge!, siamo ancora all’inizio del concerto. Perché Ray è molto più dell’organista ufficiale del Madison Square Garden. È il direttore artistico, deejay, coach musicale, capace di caricare o soccorrere le squadre in partita. Da un box di due metri al sesto piano del Madison, le mani sulla tastiera elettronica, segue il gioco e decide se allungare la rullata tipo aereo al decollo o scandire col rock il tempo dell’attacco. «I giocatori e il pubblico ormai non possono farne a meno», ammette.
Vedrete palloni-droni volteggiare sulle vostre teste, pezzi gangsta rap dal ritmo irresistibile farvi schizzare in piedi, e penserete al solito circo americano. Eppure dietro questa piccola Broadway c’è un po’ d’Italia. Castoldi è nipote di emigrati da Milano. Juventino («nel 2010 vidi a Torino una partita, emozionante»), sposato, due figli (uno, Lorenzo, fa il batterista), Castoldi irradia il Madison del suo spirito italiano. «Verdi, Rossini – racconta divertito – amo l’Opera, il crescendo di una partita è un po’ rossiniano». Gli strumenti, come atleti, entrano nella partitura del match, il ritmo diventa fretta poi concitazione poi vertigine, fino all’esplosione finale. «Quando le cose vanno bene suono una tarantella o Funiculì funiculà ». Anche se sa dire solo «buonciorni» e «grazie», l’Italia c’è sempre. Pezzo più amato? «Seven Nation Army, The White Stripes». Tormentone ai Mondiali 2006. «Appunto».
Con il suo Roland elettronico da teatro a doppia tastiera, Ray fa ciò che ogni tifoso che abbia sognato di essere amico di Nick Hornby, farebbe: aiutare la propria squadra con la musica giusta. «Ma con i Rangers serve più tempo, perché il Madison diventa un frigorifero e le mani all’inizio sono intorpidite».
Nato in Connecticut, uscito dal Berklee College of Music, diplomato in composizione, fino a poco tempo fa Castoldi era l’unico organista nella Nba, erede del grande Eddie Layton che suonò per Knicks e Yankees fino agli Anni 80. Ora anche a Los Angeles e ad Atlanta ne hanno uno. «Se suoni dal vivo senti la differenza, i nastri non hanno intensità». Ray si esibisce anche per i Mets di baseball, a ottobre ha suonato a Wembley per tre partite di football della Nfl. Musicisti gli inviano nastri con la speranza di sentirli durante le partite. Il suo è un lavoro artistico e psicologico. «In base al tipo di partita studiamo una scaletta, sia da lavorare con il deejay, sia da suonare al piano». Per Knicks-Atlanta lo ha affiancato dj Rumor, che da anni fa ballare il jet set di New York e il pubblico dell’All-Star Game. Si passa da Jay-Z a Travis Scott, da Stevie Wonder all’Hallelujah di Händel.
Gli inserti durano pochi secondi, la scaletta ha in media 83 brani. «All’inizio suono poco: il pubblico deve sistemarsi, prendere l’hot dog, e la squadra deve entrare nel ritmo partita». Se i Knicks vanno sotto? «De-fence, una buona difesa dà autostima». Se vanno molto sotto? «Famiglia Addams, per sdrammatizzare». Se comincia la rimonta? «Alzo il volume e chiedo al pubblico di urlare, per confondere gli avversari». In questo modo, si narra, Castoldi fu decisivo in una clamorosa rimonta ai playoff di New York contro Indiana, vent’anni fa. Con l’hockey le cose cambiano. «È sport di contatti duri. Suoni meno perché i giocatori devono sentire il rumore dei pattini sul ghiaccio. Se qualcuno arriva alle spalle, può essere pericoloso». Ray ha scritto un pezzo, Let’s Go Rangers, che i tifosi cantano come un mantra liberatorio. E nel calcio? «Il pianista non serve, ci pensano i tifosi». Concluso il concerto, il pubblico sciama sereno verso le uscite sulla 7ª Avenue. Nell’aria, New York State of Mind, di Billy Joel. Se la playlist cambia ogni volta, il finale è sempre lo stesso. «Perché la gente torni a casa serena – conclude Castoldi – in fondo, se sei a New York non perdi mai».