La Stampa, 5 gennaio 2019
Intervista all’architetto Aimaro Isola
Aimaro Isola il 14 gennaio compirà 91 anni e il regalo peggiore che gli si potrebbe fare è chiamarlo archistar. Eppure ha alle spalle una vita che coincide con la storia dell’architettura contemporanea.
Le sue opere di design sono esposte al Moma di New York e al Centre Pompidou di Parigi. Edifici come la Borsa Valori di Torino (di cui vinse il bando nel 1952 quando era ancora studente, allievo di Carlo Mollino), la Bottega di Erasmo (1956), il Centro direzionale Olivetti, meglio noto come «Talponia» (1969) hanno rivoluzionato il concetto della progettazione e dell’abitare. Ancora oggi il suo studio sforna progetti rivoluzionari come il Quinto Palazzo Uffici per l’Eni, musei sparsi per tutta l’Italia e chiese.
Letterato, artista, docente e architetto - in ordine rigorosamente sparso - negli ultimi 70 anni non ha mai smesso di disegnare, immaginare case e concedersi una nuotata al giorno: «Ancora adesso non manco l’appuntamento con la piscina, da giovane sono stato un atleta e se smetti crolli». Lui invece ha l’aspetto solido della pietra di Luserna che per 50 anni, assieme all’amico e collega Roberto Gabetti scomparso nel 2000, ha usato con senso della testimonianza nei suoi progetti, con gli occhi del piemontese che guardano al mondo. «Perché Torino ha sempre avuto uno sguardo internazionale - dice, mentre sfoglia il De Re Aedificatoria di Leon Battista Alberti sempre sulla sua scrivania - qui ci si può concentrare, lavorare bene e coltivare una visione».
Professore, qual è il segreto della sua architettura?
«Io mi sento architetto nel senso umanista del termine. L’obiettivo finale deve essere come ci insegnano Aristotele, Seneca e poi, molto dopo, Rousseau, Goethe e Thomas Mann: costruire case che consentano di vivere felici. Spesso, invece, oggi gli architetti sono schiacciati dalla propria autoreferenzialità e dimenticano questo fine ultimo».
Settant’anni di progetti alle spalle. Sono un peso?
«Al contrario. La sensazione è quella di una grande leggerezza, di un’architettura, per dirla con Didi-Huberman, che avanza con il passo leggero dell’ancella. Ho avuto la fortuna di fare vita a progetti in linea con il nostro modo di pensare, eccentrica, ma contraria alla spettacolarizzazione».
Di qui la sua passione per la costruzione in armonia con la natura, l’allergia ai grattacieli, l’imperativo di conciliare le costruzioni con il panorama.
«Già. Quando l’Olivetti nel 1968 affidò a me e a Gabetti la progettazione di un centro residenziale per i suoi dipendenti si aspettava un grattacielo».
Invece nacque «Talponia».
«Sì, amo questo soprannome. Era una costruzione discreta che spuntava dal terreno in modo inaspettato, così come avviene per le tane delle talpe. E mezzo secolo dopo il mio studio non ha vinto il progetto del Palazzo della Regione di Milano probabilmente perché siamo stati gli unici a non voler presentare un grattacielo».
D’altronde la sua casa di riferimento, il Castello di Bagnolo, con la comunità urbana che ci è cresciuta attorno appare come un capolavoro di rispetto del panorama.
«Sì, già i miei antenati avevano molto a cuore il paesaggio. L’architettura è un’arte sporca, vive di compromessi, deve fare i conti con la politica e con la tecnologia, e contiene sempre una violenza primigenia. L’importante è saperla contenere, realizzarla rispettando il contesto e l’epoca in cui nasce. Poi per me, ogni progetto ha la stessa importanza, che sia la gabbia del cane o, appunto, un grattacielo».
Lei è stato allievo di Mollino, ha gareggiato contro Nervi, lavorato con Morandi. Che ricordi ha di loro?
«Mollino era Mollino, personalità gigantesca, ma all’Università si vedeva poco, io invece c’ero sempre, ho passato tutti i miei pomeriggi al Castello del Valentino, poi ho acquisito la sua cattedra, ma tardi, dopo il ’68. Nervi era un grande ingegnere e opere spartiacque come il Palazzo del Lavoro sono lì a dimostrarlo. Io e Morandi perdemmo contro di lui, ma oggi, riguardando quella costruzione, penso che sia molto precaria. Allora il cemento armato fu divinizzato e invece si corrode».
E il Ponte Morandi? Si è stupito di quel tragico crollo?
«Era un’opera iconica. L’ho percorso anch’io mille volte e lavoravo con Morandi proprio negli anni in cui progettava quel ponte e quello analogo di Maracaibo. Devo dire la verità: da tecnico non mi ha stupito quel crollo. È stato un grande progetto, iconico e audace, com’era Morandi, un antico romano con le idee chiarissime. Lui non parlava di cemento armato, ma di conci. E buttava il cuore oltre l’ostacolo».
Come progetterebbe il nuovo Ponte di Genova?
«Da una tragedia deve nascere un’opportunità. E lì l’occasione vera è quella di ricucire sotto il ponte due parti di città divise dal fiume. Soprattutto ci vuole un progetto pensato, non basta un ponte veicolare».
E quello di Renzo Piano?
«Lui è bravo, ma una cosa è certa, qui la fretta è nemica del risultato».
Lei e Gabetti studiavate sino allo sfinimento i progetti. Le manca molto?
«La sua scomparsa è stata un colpo duro. Per fortuna oggi il mio studio è pieno di giovani bravi che mi tengono allegro».
Quanto pensa al giorno all’architettura?
«Vede, si tratta di una terra di confine. E confina con tutto. E quindi è un pensiero unico e ininterrotto».