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 2019  gennaio 05 Sabato calendario

La crisi del rugby

Come se la passa il rugby internazionale all’inizio dell’anno che porterà alla Coppa del Mondo numero 9 (in Giappone dal 20 settembre al 2 novembre) e a meno di un mese dal Sei Nazioni (al via l’1 febbraio)? Non benissimo, e comunque peggio di 12 mesi fa. Rispetto ad allora, infatti, i grandi problemi del rugby professionistico sono sempre più lontani dalla soluzione. 
Negli ultimi sette mesi sono crollate certezze e soprattutto sono morti tre ragazzi in Francia, un 17enne a maggio, un 21enne ad agosto e, a dicembre, un 19enne delle giovanili dello Stade Français di Sergio Parisse, Nicholas Chauvin. E il guaio, grosso, è che tutti e tre hanno perso la vita in seguito a interventi di gioco regolari. Garantire la sicurezza di chi va in campo è il primo obiettivo che Rugby World, la Federazione mondiale, si impegna a garantire. Ma non è semplice. C’è sempre maggior attenzione per le commozioni cerebrali per le quali si segue un protocollo molto rigido, e ogni mese si parla di «abbassare» il placcaggio: prima sono stati vietati quelli alla testa, poi l’area consentita si è abbassata al petto, adesso si parla di cintura. La verità è che negli anni i giocatori sono diventati più grandi, più pesanti e più veloci. Gli impatti sono brutali (e le regole non aiutano ad addolcirli), le conseguenze sempre gravi e, purtroppo, a volte letali. 
Per far crescere i fatturati si gioca sempre più spesso e il livello di guardia è stato superato da un pezzo. In una rosa, capita ormai che siano più gli infortunati degli atleti disponibili e se Nuova Zelanda e Irlanda sono le due squadre migliori del mondo, è anche perché gestiscono con grande attenzione e parsimonia i loro campioni per averli sempre al massimo della forma nelle partite internazionali. Discorso molto diverso per chi schiera giocatori dei club inglesi e, peggio ancora, francesi. Le società pagano gli stipendi e non sono interessate ai problemi delle Nazionali. Un anno fa, alla richiesta dei dirigenti della Premier inglese di giocare di più, il sindacato dei giocatori ha risposto picche. «Piuttosto – hanno fatto sapere – pagateci di meno». 
Difficilmente succederà, anche perché la Premier ha appena venduto il 25 per cento delle sue azioni al fondo Cvc (il vecchio proprietario della Formula 1) per 255 milioni di euro, ma pagare meno i giocatori potrebbe essere una soluzione visto che i conti tornano sempre meno in ogni angolo del pianeta. La notizia choc dell’ultimo mese arriva dalla Rugby Football Union, la Federazione inglese, la più ricca e potente. Dopo aver navigato nell’abbondanza, dal quartier generale di Twickenham hanno fatto sapere che il 2018 si chiude in rosso: 34,2 milioni di euro di «perdite operative». Per essere chiari, la Rfu è una Federazione che nel biennio 2016-17, solo per le partite a Twickenham, la slot machine della Rosa, ha incassato 413,8 milioni e nell’ultimo anno ne ha investiti 120 nel rugby di base. «La crescita è incerta – ha comunicato Sue Day, responsabile finanziario —, ci aspettano tempi difficili». Difficilissimi per i 54 dipendenti della Rfu che hanno già perso il posto. 
Non bastasse la crisi dei più ricchi, anche il Sei Nazioni sarà costretto a rivedere la voce ricavi. Chiuso il rapporto con la Royal Bank of Scotland, main sponsor del Torneo per 15 anni (nell’ultima stagione attraverso NatWest), è stato firmato un nuovo accordo di sei anni con la Guinness. La celebre birra scura verserà quest’anno 6,7 milioni di euro (un anno fa NatWest ne aveva scuciti 10) e nell’ultimo anno dell’accordo ne pagherà 13,4. Dodici mesi fa, il board del Sei Nazioni rifiutò un’offerta della Royal Bank of Scotland di 15,5 milioni l’anno. Evidentemente avevano sbagliato i conti. Come tanti altri nel mondo del rugby.