La Lettura, 30 dicembre 2018
Interpol, guardie contro ladri. Ma chi sono i ladri?
Sono tempi di pragmatismo duro, regimi e semi-democrazie regolano i conti con i loro oppositori in modo brutale. Accadeva in passato, solo che adesso i sicari di Stato sono sfacciati, a volte pasticcioni, convinti di avere le spalle comunque coperte. Perché chi ha impartito l’ordine di liquidare il nemico è convinto di farla franca. Parliamo di azioni «coperte» condotte lontano dal proprio Paese, violando confini e sovranità. Delitti che richiedono spesso una risposta investigativa internazionale con incroci di dati, informazioni, verifiche.
L’assassinio a Kuala Lumpur nel febbraio 2017 di Kim Jong-nam, fratellastro del dittatore nordcoreano Kim Jong-un; l’attentato all’esule russo Sergei Skripal in Gran Bretagna (marzo 2018); la fine del giornalista saudita Jamal Khashoggi a Istanbul (ottobre 2018) sono tre casi di grande rilevanza, con implicazioni profonde. E non sono comunque gli unici, altri restano «sul fondo», protetti da segreti e manovre. Ecco perché, in alcune circostanze, è fondamentale il ruolo dell’Interpol, l’agenzia internazionale con sede a Lione che mette in collegamento i 192 Paesi membri. Strumento fondamentale per tracciare gli spostamenti dei ricercati, fornire dritte sui sospetti, far circolare file che permettono una svolta in un’inchiesta. Dunque è necessario che a guidarla ci sia un funzionario che offra garanzia nel rispetto di leggi e diritti, non usi la propria posizione – anche se non ha grandi poteri esecutivi – per favorire i giochi del proprio governo.
Questo in linea di principio, poi nei fatti è un’altra cosa.
Nel novembre 2016 è stato nominato presidente il cinese Meng Hongwei. Viceministro della Sicurezza, 65 anni, grande esperienza e ben dentro la macchina del potere, ha raggiunto il vertice con piena soddisfazione di Pechino e tanti timori di altri «attori». Alla sua elezione, un orgoglioso presidente Xi Jinping aveva promesso l’osservanza stretta delle norme che ispirano l’ente internazionale. Promesse, appunto. Non pochi osservatori e diplomatici hanno subito messo in guardia sui rischi concreti di operazioni poco ortodosse da parte di Pechino. In particolare con la diffusione di appelli all’arresto di oppositori residenti all’estero e considerati avversari pericolosi. A cominciare da uno dei leader della minoranza musulmana degli uiguri, Dolkun Isa. La comunità islamica – come hanno documentato numerosi rapporti – è repressa in modo spietato, con arresti massicci e campi di rieducazione. Una reazione solo in parte giustificata da azioni violente da parte dei militanti: la ramazza della sicurezza non fa troppe distinzioni tra dissenso e terrorismo.
I dubbi si sono sommati a valutazioni più politiche, una matassa sintetizzata da una battuta: «È come mettere una volpe a guardia del pollaio». Ma in quei giorni nessuno poteva immaginare o scommettere che la stessa volpe sarebbe finita nella tagliola delle epurazioni interne. Il 4 ottobre scorso la moglie di Meng Hongwei si reca in un commissariato francese per denunciare la sparizione del marito: «È partito per la Cina e da allora non ho più sue notizie. Con l’ultimo messaggio mi avvisava che avrebbe telefonato, poi ha inviato una foto che raffigurava un coltello». Quella lama era un brutto segnale, voleva dire guai, se non persino la morte imminente. La notizia su Meng scatena speculazioni, ci si chiede che cosa possa essere successo, qualcuno ipotizza persino una storia di spionaggio. Nulla di tutto questo. Pochi giorni dopo Pechino «parla», fornisce la sua versione dei fatti. Il numero uno dell’Interpol è in galera. È accusato di corruzione: avrebbe intascato bustarelle. La stessa fine di uno dei suoi capi quando era al ministero: infatti, le fonti cinesi collegano Meng a quel giro di dirigenti infedeli. Insieme all’annuncio dell’arresto arriva il comunicato delle sue dimissioni.
Tutto grottesco, tutto reale. Tutto inquietante. Il cacciatore, che aveva partecipato a complesse operazioni per catturare molti esponenti della nomenklatura nei guai per abusi di potere o malaffare, si ritrova nella stessa condizione delle sue prede. Privato della libertà, degli onori, un giorno forse anche della vita.
L’intrigo cinese ha lasciato scoperta la poltrona più importante dell’Interpol. Così si è subito scatenata la gara per la successione. Con un’altra «volpe» in prima fila. Il Cremlino ha lanciato la candidatura del generale Alexander Prokopchuk e ha messo in moto la sua macchina per arrivare alla meta. Inevitabile quanto scontata la reazione dell’Occidente: non se ne parla. Europei e americani hanno fatto fronte comune usando, con maggior vigore, le carte già contestate a Pechino, mossa peraltro favorita da quanto avvenuto in questi mesi. Gli inquirenti britannici, quindi i loro colleghi olandesi (probabilmente con la sponda della Cia), hanno accumulato elementi sul ruolo del Gru, il servizio segreto militare di Mosca: dettagli sulla missione (fallita) per eliminare l’ex spia Skripal a Salisbury, incursione che ha avuto un effetto collaterale con la morte di una innocente; indizi pesanti sull’attività degli agenti segreti in Olanda. Foto, movimenti dei sospetti, materiale sequestrato e altre carte rimaste riservate hanno messo Mosca sulla difensiva. E dato munizioni a quanti si sono opposti a consegnare le chiavi dell’Interpol a un russo. Abbastanza facile per i critici indicare i rischi per gli oppositori di Vladimir Putin rifugiati nell’Unione Europea oppure negli Usa.
Alla fine, questi precedenti hanno impallinato le ambizioni del Cremlino, la guida è andata al sudcoreano Kim Jong-yang, appoggiato con grande decisione da Washington. Figura non problematica come il concorrente Alexander Prokopchuk, ma che di sicuro avrà molto da lavorare su terreni insidiosi. Perché, appunto, i paletti della sfida globale sono saltati e se qualcuno decide di uccidere lo fa senza porsi troppe domande. Poi se lo scoprono affermerà, con una buona dose di faccia tosta, che gli accusati non sono degli assassini ma dei poveri «turisti» scambiati per killer.