4 gennaio 2019
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Biografia di Robert Duvall
Robert Duvall (Robert Selden D.), nato a San Diego (California, Stati Uniti) il 5 gennaio 1931 (88 anni). Attore. Regista. Vincitore di un premio Oscar al miglior attore protagonista (Tender Mercies – Un tenero ringraziamento di Bruce Beresford, 1984). «I registi sono convinti che io sia bravissimo a interpretare personaggi dallo spirito brutalmente egoista. Io non lo so, ma è vero che gli individualisti di poche parole mi vengono bene» • Eterogenee ascendenze europee (principalmente inglesi, ma anche francesi, da cui il cognome paterno Duvall, belghe, tedesche, scozzesi e gallesi) • Figlio di un ammiraglio di marina e di un’attrice dilettante, è imparentato per parte materna col generale confederato Robert Edward Lee (1807-1870). Laureatosi in Arte drammatica al Principia College di Elsah (Illinois), nel 1953, alla fine della Guerra di Corea, si arruolò nell’esercito, e trascorse quindi due anni a Camp Gordon (Georgia, Stati Uniti), prendendo anche parte a produzioni teatrali amatoriali. Congedatosi con il grado di soldato di prima classe, «nel 1955 mi iscrissi alla scuola di recitazione di Sanford Meisner, a New York, dopo essermi laureato in Arte drammatica e aver fatto due anni di servizio militare: grazie a questo ricevetti una lauta borsa di studio. Fu una benedizione. Allora incontrai altri giovani attori come Dustin Hoffman e Gene Hackman: divenimmo inseparabili» (a Silvia Bizio). «Eravamo roommates, compagni di stanza. Avevamo tutti un idolo: Marlon Brando. Con Gene e Dustin abbiamo condiviso lo stesso destino: abbiamo iniziato a recitare perché a scuola eravamo pessimi studenti. Per quanto riguarda me, la colpa è dei miei genitori, che non hanno capito che dopo la fine della Guerra di Corea ero disperato: non sapevo cosa fare nella vita» (a Roberto Croci). Duvall ottenne il primo grande successo nel 1957, interpretando al Gateway Theatre Eddie Carbone in Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, sotto la direzione di Ulu Grosbard. In seguito, «Meisner mi scritturò a teatro per The Midnight Caller di Horton Foote, il quale anni dopo, nel 1962, mi raccomandò per il ruolo dello squilibrato Boo Radley nel film Il buio oltre la siepe, di cui Foote aveva scritto il copione. Gregory Peck accettò di farne parte. Fu il film che mi lanciò nel cinema». «Ottiene ruoli via via sempre più importanti in film quali Conto alla rovescia (1967) di R. Altman, Bullitt (1968) di P. Yates, M.A.S.H. (1970) ancora di Altman. Il suo volto scavato, l’aria taciturna e l’espressione sottilmente ironica assumono tonalità essenziali nel personaggio di Tom Hagen, freddo consigliere di mafia in Il padrino (1972) di F.F. Coppola, per la cui interpretazione ottiene una nomination all’Oscar» (Gianni Canova). «Nel 1979 fece un’inversione a centottanta gradi e si guadagnò elogi sperticati vestendo i panni di due militari tutt’altro che freddi, anzi bollenti come il napalm: Bull Meechum di Il grande Santini e il tenente colonnello Kilgore in Apocalypse Now. Assai meno sopra le righe il personaggio interpretato da Duvall nel 1983 in Un tenero ringraziamento, un cantante country, Mac Sledge, molto malmesso e tormentato: con questo ruolo Duvall vinse l’Oscar per il miglior attore» (Jonah Weiner). «In seguito recita in oltre cinquanta film (e tv-movies), tra i quali […] La nave faro (1985) di J. Skolimowski, La peste (1992) di L. Puenzo, Deep Impact (1998) di M. Leder. A Civil Action (1998) di S. Zaillian. In Geronimo (1993) di W. Hill impersona un vecchio, disilluso scout dell’esercito, amico degli indiani; mentre in Un giorno di ordinaria follia (1993) di J. Schumacher ricalca la figura dell’anziano poliziotto, saggio e disincantato, che aveva già disegnato in Colors (1988) di D. Hopper, e in Terra di confine (2003) di K. Costner dà vita a uno dei ruoli migliori della sua lunga carriera» (Canova). Tra le sue interpretazioni più acclamate degli ultimi anni, quella del protagonista di Get Low di Aaron Schneider (2009) e quella del coprotagonista, al fianco di Robert Downey Jr., di The Judge di David Dobkin (2014), che gli valse la sua settima candidatura a un premio Oscar (quale miglior attore non protagonista). «Quando il regista Aaron Schneider e la produzione decisero di girare Get Low, la storia quasi vera di un anziano del Tennessee che nel 1938 decise di organizzare una festa per il suo funerale quando era ancora in vita, la scelta del protagonista fu quasi obbligata. Felix Bush era un boscaiolo che viveva come un eremita, un tipo burbero e scontroso che faceva anche un po’ paura e che allo stesso tempo aveva un cuore d’oro. “Era un tipo di ruolo molto sfaccettato – spiega il regista –. E la nostra lista di possibili attori era molto corta: in realtà era composta solamente da Robert Duvall”» (Lorenzo Soria). In The Judge, invece, Duvall interpreta l’anziano giudice Joseph Palmer, ruolo «che aveva inizialmente rifiutato. Poi l’ha accettato. Perché? “Nel film sono una persona di una certa età, malato… Tutte quelle scene grafiche sulla mia malattia non erano piacevoli. Poi, agente ed alcuni amici mi hanno fatto notare che non facevo un ruolo importante in un film da studio sin da Apocalypse Now, un secolo fa! Ho accettato proprio perché era un ruolo difficile. In ogni caso, faccio un po’ quello che mi pare: in ogni progetto metto sempre passione, devo solo trovare un personaggio su cui lavorare”» (Croci) • Generalmente apprezzate le sue prime prove da regista, Angelo, amore mio (1983) e L’apostolo (1997); più negativo il giudizio verso i successivi Assassination Tango (2002) e Wild Horses (2015) • Privo di figli, ha tre matrimoni alle spalle; nel 2005 ha sposato in quarte nozze l’argentina Luciana Pedraza (classe 1972), da lui impiegata come attrice in Assassination Tango e in Wild Horses. «Mia moglie fa il compleanno nel mio stesso giorno, anche se ha la metà dei miei anni. Quando ho incontrato mio suocero, mi ha detto: "Non so se chiamarti ‘papà’ o ‘figlio’"». «Luciana è sveglia, bella, elegante, balla divinamente il tango, che è una delle passioni che ci hanno avvicinato, e in più cucina come una chef professionista. Che dire di più? È anche una brava attrice» • «Il tango è cominciato come un hobby, dopo che ho visto lo spettacolo di Broadway Tango argentino, e, come mi succede di solito, è diventata un’ossessione». «Mi ha affascinato il connubio tra la passione e la precisione dei passi e del movimento: fuoco e ghiaccio insieme. Ho cominciato a prendere lezioni, e intanto è cresciuto l’interesse per l’Argentina. […] Ho capito che per gli argentini il tango è una danza sociale: può esprimere qualunque stato d’animo. Un tanguero può essere un ladro, un criminale, un onesto lavoratore, ma è soprattutto un ribelle, uno che non accetta regole, se non quelle del ballo. Siamo noi stranieri che sentiamo il bisogno di aggettivi come “sensuale” o “erotico”. Per me, personalmente, il tango è dolcezza e bellezza» • «Ha un ranch in Virginia e ama i cavalli. Cavalca ancora? “Non molto. […] Per salire a cavallo ho bisogno di uno sgabello, ma quando sono in sella sono okay! Devo stare attento: negli ultimi anni, mi sono rotto parecchie costole!”. Da dove viene questo amore per i cavalli? “Mio zio aveva un ranch in Montana, sono cresciuto in mezzo ai veri cowboys: per questo amo i film western. Voi italiani avete Dante, i francesi Molière, gli argentini Borges: noi abbiamo i western”» (Croci). «Il fatto che viva in Virginia non significa che disdegni una bella festa. È vero che sono lontano da Hollywood, ma un bel Hollywood party ogni tanto mi diverte eccome. Ma mi sento meglio quando sono circondato dalla natura. Mentre studiavo la mia parte per Get Low, in Argentina, passavo le ore seduto su una roccia, guardando le Ande, e provavo un gran senso di pace e solitudine: essere lì, con la natura… Non è facile provare la stessa sensazione a Los Angeles» • «“Io non bevo, non mi è mai piaciuto. Ogni tanto assaggio un goccio di vino, tutto lì. È per questo che probabilmente non ho potuto interpretare bene certi ruoli: non so cosa voglia dire ubriacarsi”. Vuol dire che non ha vizi? “Non so. Sono cresciuto in una casa cristiana: certe cose ti rimangono dentro”» (Bizio) • Repubblicano, ha sostenuto le candidature di George W. Bush (dalle cui mani nel 2005 ricevette la National Medal of Arts), Rudy Giuliani, John McCain e Mitt Romney • «Gli attori della mia generazione dicono spesso di essere stati influenzati da John Cassavetes. Per me, no: la mia prima, fondamentale influenza è stato Ken Loach e il film Kes (1969). Lo ricordate? La storia del ragazzino povero inglese con il suo falco». «Spielberg mi aveva chiesto di fare Lo squalo, ma ero troppo giovane, e quindi hanno preso Robert Shaw. Avrei voluto fare Oskar Schindler in Schindler’s List, ma in quel caso ero troppo vecchio» • «Penso di essere un caratterista: faccio bene il militare – lo era mio padre –, e ho fatto il generale Lee in una serie tv sulla Guerra civile, ma adoro cambiare» (a Maria Pia Fusco). «Ha rappresentato personaggi storici come Jesse James, Dwight Eisenhower, Joseph Stalin e Adolf Eichmann, […] ma i suoi due ruoli più iconici li ha avuti sotto la direzione di Francis Ford Coppola, come il fedele consigliere Tom Hagen nel Padrino e come il colonnello Kilgore in Apocalypse Now, quello della famosa frase “Amo l’odore di napalm alla mattina”» (Soria). «Il filo conduttore fra tutti questi personaggi, dice, è che, “in ogni ruolo, io cerco di trovare le contraddizioni. Perfino quando ho interpretato Stalin ho cercato di trovare un punto vulnerabile”. Quest’aura di perfezione è il frutto di una tecnica che bilancia intensa preparazione e spontaneità. Dopo aver accettato una parte, Duvall fa i "compiti a casa". Per interpretare Mac Sledge [il cantante country protagonista di Tender Mercies – Un tenero ringraziamento – ndr] frequentò localacci da due soldi, arrivando addirittura a cantare con una band country improvvisata. Per calarsi nei panni di Euliss Dewey, predicatore pentecostale, sincero ed enfatico, nel film L’apostolo del 1997, scritto e diretto dallo stesso Duvall, andò per anni nelle chiese nere. S’immerge in queste ricerche, ma non prende decisioni definitive su come interpretare un personaggio finché non si comincia a girare. […] “Secondo me, le prove non servono”, dice Duvall. “Il primo ciak è la prova: poi, se ne hai bisogno, hai il secondo, il terzo, il quarto e il quinto ciak”. Il suo stile di recitazione misurato e i suoi doni camaleontici sono un pregio dal punto di vista artistico, ma sono anche un difetto dal punto di vista commerciale. Grazie alla capacità di compenetrarsi totalmente nei personaggi, Duvall ha alternato ruoli di contorno a ruoli di protagonista (tutti interpretati alla perfezione) senza spostarsi mai stabilmente da una categoria all’altra. Dice che gli piacciono quelle parti che danno tempo e spazio per scavare a fondo. Il personaggio preferito fra quelli che ha interpretato è l’ex ranger texano Augustus McCrae, nella miniserie di sei ore della Cbs Colomba solitaria. “Giù in Texas è come la Bibbia”, dice. “Non è girato bene come Il padrino, ma ha un’ampiezza incredibile”. Duvall però assicura di riuscire a trarre grande soddisfazione anche da un ruolo che comporta solo poche inquadrature: “Puoi fare tantissimo se la parte è ben definita, oppure puoi cercare di espandere la parte e dargli spessore”. Mentre girava un cameo con Viggo Mortensen in The Road, ricorda, “ho improvvisato tutta una scena che non era nel copione, e loro l’hanno lasciata. […] Non ho chiesto il permesso al regista. Dissi semplicemente a Viggo: ‘Preparati: qui voglio fare qualcosa’”» (Weiner) • «Maestro di classe» (Roberto Nepoti). «È un bravissimo attore. […] Ha una faccia seria e affascinante da uomo forte e vero» (Lietta Tornabuoni) • «“Io sono uno a cui piace celebrare la vita, non la morte”, confessa. “Non vorrei inoltre essere sepolto: odio le bare e i vermi. Ho chiesto di esser cremato, quando verrà il mio momento. E che i miei cari spargano le ceneri dove cavolo gli pare”. Pragmatico e sbrigativo, Duvall ha un solo segreto per il mestiere: “Keep it simple”, ovvero “Falla semplice”. “Saper parlare e ascoltare è l’unico processo che conduce l’attore all’essenza emotiva del personaggio”, spiega. “E non c’è niente di più semplice che parlare ed ascoltare”. […] Non pensa mai di ritirarsi dalle scene? “No, finché sto così bene. Michael Caine una volta ha detto: ‘Non sei tu che ti ritiri: è il cinema che ti manda in pensione’. E non mi ha ancora mandato in pensione. […] La realtà è che non mi sono ancora stancato di parlare ed ascoltare”» (Bizio).