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Vent’anni dopo il tragico giorno in cui morì, c’è una cosa che si può dire con certezza: Fabrizio De André non manca solo agli amici, agli appassionati, alle persone care, manca alla coscienza collettiva del paese. Le sue canzoni sono ancora lì, intatte, integre, scolpite nell’immaginario a ricordare i nostri demoni, le storture, ma anche la bellezza della libertà e della dignità che non accetta compromessi. Un percorso che per alcuni anni ha condiviso con uno degli artisti più rappresentativi della nostra cultura musicale.
A Mauro Pagani, cosa manca di più dell’amico e del compagno di lavoro?
«Il senso dell’umorismo, che a volte era feroce. Devo confessare che quando oggi mi vengono in mente certe battute, ancora mi sorprendo a pensare che lui le avrebbe capite fino in fondo: sottotesto e sfumature compresi. Sembravamo diversi, ma per molte cose eravamo simili. Entrambi venivamo dal liceo classico, ma quello d’antan, pre riforma. Io diplomato nel 1964, lui nel 1960, quando la maturità valeva una laurea. Eravamo abituati a leggere di tutto, e in modo interdisciplinare, avevamo una visione del mondo globale: quando la filosofia parla con la matematica, e la matematica con la quotidianità. Il linguaggio comune era quello».
Quando avete cominciato a collaborare, cosa apprezzava di più del passato di De André?
«Adoravo le sue "classiche": Bocca di rosa, La guerra di Piero. E che dire di Non al denaro, non all’amore né al cielo? Proprio questa settimana ho riletto i testi, e ancora mi stupisce la capacità di reinterpretare Lee Masters in quel modo… ho amato meno Storia di un impiegato, perché tanto era bravo a scrivere versi quando si sentiva libero, tanto diventava capzioso quando cercava di spiegare troppo: in prosa risultava più antico, orpelloso, pieno di parentesi».
Per Storia di un impiegato c’erano di mezzo i difficili rapporti col movimento, l’esigenza del riscatto, di farsi capire. L’esperienza insegna che l’intenzione didascalica non ha mai giovato troppo alle canzoni. Non crede?
«Diciamo che lì c’era coda di paglia ideologica. Assente da Non al denaro, anche grazie al lavoro di Nicola Piovani che ha una preziosa leggerezza quando scrive. In fondo si trattava di epitaffi e invece il disco vola, letteralmente. Ci sono due regole fondamentali. Una me l’ha insegnata Fabrizio: nelle canzonette non si giudica, si racconta. È la differenza che passa tra una lettera e una raccomandata con ricevuta di ritorno. La seconda regola, che aggiungo io, è che nelle canzonette non si riassume».
Come spiegherebbe l’unicità di un percorso artistico tanto speciale?
«Ci pensavo proprio in questi giorni rileggendo un suo breve testo che diceva più o meno: "Ho sempre cercato di stare indietro di non espormi. La sovraesposizione non era nel mio carattere. Poi a volte mi chiedo se ho fatto bene, perché la gente comune finisce per odiare quello che non comprende". Se penso a Fabrizio oggi, penso a un intellettuale nella società contemporanea: in che modo deve porsi, in un periodo in cui il sapere sembra diventato il nemico? Subiamo il tradimento di una classe dirigente. Se vieni da me come un faro, una guida, poi devi sapere di cosa parli, altrimenti mini la fiducia della gente nei confronti della conoscenza. La grandezza della figura di De André è che ha vissuto con una coerenza esemplare. Aveva le sue contraddizioni, non era certo un santo, ma il suo ruolo di cantastorie l’ha interpretato con assoluta dirittura morale».
Una congenita ritrosia che ha pagato: oggi la sua popolarità è enorme, paradossalmente in crescita col passare del tempo… «Merito dell’integrità, di quel modo di raccontare i fatti della vita. Nelle sue canzoni c’era un’umanità talmente profonda da lasciarne inalterato il fascino.
Quello che ci ha insegnato è che non è necessario fare canzoni politiche, o a sfondo sociale.
Basta raccontare quel che ci sta a cuore. Casomai mi chiedo come possa un ragazzo di 25 anni oggi guardarsi attorno senza incazzarsi per quello che sta succedendo al pianeta. Mi sento circondato di stanzette, camerette, visioni piccole, con l’odore degli ormoni della crescita e la puzza di calzini da ginnastica. Un personaggio come Fabrizio ricorda a tutti che non è obbligatorio essere impegnati, ma se vuoi una canzone sincera devi essere in primo luogo sincero con te stesso. Se seduto al bar guardi solo il culo delle ragazze, scriverai una canzone che parla del culo delle ragazze. Una canzone di De André era l’esempio di come, guardando una persona, si possano pensare cinquecento cose, non due solamente».
Come fu l’inizio della collaborazione?
« Crêuza de mä venne fuori come un torrente in piena. Io lavoravo da anni su quel materiale, ero maturo, lui era pronto a cambiare, ci fu una totale comunione di sentimenti. Dopo abbiamo passato tre o quatto anni a discutere di cosa sarebbe stato interessante parlare: lui avrebbe voluto fare un secondo Crêuza de mä, per la libertà di canto e di parola che suggeriva.
Gli era piaciuto, poteva stiracchiare le parole come voleva, senza rima, senza metrica. Io mi sono battuto per fargli fare un disco italiano, come non faceva da tanti anni. Nuvole è il compromesso, metà disco è in italiano, infatti doveva chiamarsi Ottocento. La domenica delle salme è l’unico testo che ho avuto il privilegio di scrivere a quattro mani con lui. Ripensavo a quel verso che dice "il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni, auspica democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni". Sembra scritto oggi. Mi mancano quei tre o quattro anni passati a provarci, a leggere, a discutere, mi manca il rapporto con un amico dotato di cervello e anima sempre in funzione».
Le è mai passato per la mente di pubblicare una musica a lui dedicata?
«Devo ammettere che ho qualcosa in ballo ma ancora non posso dire niente. È troppo presto. Sarà una sorpresa».
Non ci si pensa mai abbastanza, ma Faber è il cantautore che più ha coltivato l’arte della collaborazione. C’era sempre un alter ego al suo fianco. È quello il modo giusto?
«Con Fabrizio succedeva in continuazione. La musica di
Ottocento l’avevo scritta come uno scherzo, lui la ascoltò e disse che era bellissima, e che dovevamo usarla. Per Le nuvole gli feci ascoltare cinque diversi frammenti e lui ne scelse uno: sicuro, deciso, era quello. Per me era solo un possibile inciso, e invece diventò un pezzo. La verità è che abbiamo giocato a ping pong con la nostra anima e con la realtà che ci circondava. E un rapporto così ti salva l’anima».