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 2019  gennaio 04 Venerdì calendario

Fabio Capello è in pensione. Intervista

«Ho finito, io. Nè allenatore nè dt. Nemmeno manager. Il mio calcio è solo da opinionista. Con Sky. Ormai sono pensionato. E faccio il nonno. Di quattro nipoti». Al telefono, da Dubai, la voce forte e chiara di Fabio Capello. Tosto, e mai distaccato, pure da osservatore, come lo è stato da giocatore e da allenatore. È negli Emirati Arabi, accompagnato dalla moglie Laura. Ospite alla cerimonia dei Globe Soccer Awards per ritirare il premio alla carriera: «Il ricordo più bello è la Champions con il Milan». Incoronato a 72 anni da coach, esalta il calcio inglese e Cr7. E rimprovera qualche collega italiano, chiedendogli di osare di più. Non nel gioco, ma con i ragazzi. Come stanno facendo Mancini in Nazionale e Di Francesco nella Roma. E invita, comunque, le rivali a non inchinarsi allo strapotere della Juve.
La serie A è diventata noiosa: scudetto assegnato, l’unico vero obiettivo è il 4° posto. In più c’è la lotta salvezza. Dopo 19 giornate, giù il sipario?
«Non sono d’accordo. Guardate i punti a disposizione. Chi insegue la Juve non si deve arrendere. Vale la pena provarci. Il Napoli e le altre. I tifosi, invece, sono abituati: i bianconeri dominano e vincono da 7 anni. Ma la passione della gente c’è, a Milano è addirittura cresciuta».
Non crede che però la Premier faccia storia a sè?
«Sì, è un mondo a parte. Il torneo è sempre interessante, ogni stadio è sempre sold out e la vetrina rimane la migliore. Noi qui parliamo ancora di barriere, lì il pubblico sta a contatto con i calciatori. C’è rispetto. Quando sei in campo, ti senti importante. Ma anche la Liga rimane competitiva».
Il Barcellona e soprattutto il Real sembrano, per la verità, meno forti di prima: che cosa è successo?
«Colpa dell’addio di Cristiano. Pesantissimo. A Madrid si sono addormentati. Ma con il Barca e il Real, lotta l’Atletico. E c’è pure il Siviglia. Il campionato è più appassionante».
L’Italia esclusa dall’ultimo mondiale: non pensa che quel fallimento abbia fatto bene al nostro movimento?
«Abbiamo pagato la crisi economica e basta. E, di conseguenza, l’assenza dei campioni in campo e fuori. Da noi, negli ultimi anni, non sono più venuti. Fondamentale lo sbarco di Cristiano Ronaldo. Un esempio: Dybala negli ultimi due anni si è accontentato. Adesso, con CR7, Allegri ha detto all’argentino che se vuole giocare deve correre. A tutto campo. Dybala, grazie a Ronaldo, migliora. Il campione ne genera altri».
Se fosse l’allenatore di un club in Italia, quale giovane chiederebbe al suo presidente?
«I tre chiamati da Mancini in azzurro: Barella, Zaniolo e Sensi. Punto su Sensi. Regista e ce ne sono pochi. Gioca rapido e in verticale. È da big. Anche se fisicamente piccolo, è veloce di testa. A livello internazionale conta la dinamicità e va testato. Il fisico incide di più per chi sta in attacco. A centrocampo hai invece più spazio».
I giovani in Europa: chi li valorizza meno, Italia, Inghilterra o Spagna?
«Noi. I miei colleghi sono quelli che hanno meno coraggio. Di Francesco ha esagerato al Bernabeu facendo debuttare Zaniolo in Champions contro il Real. Ma la sua decisione è stata utile per la Roma e per il ragazzo. E per l’allenatore. Che ha capito di avere in rosa un calciatore di talento. Solo utilizzandoli, sai se i giovani sono all’altezza e pronti. Se non li vedi, non crescono e chissà che fine fanno».
Indichi i suoi tre giovani da Pallone d’oro?
«Subito Mbappè. Senza guardare l’età, Kane. E Neymar».
Fa spesso i complimenti ad Ancelotti: perché?
«È intelligente. Ha dato serenità al Napoli. Confermata la difesa, è intervenuto sul centrocampo e l’attacco, valorizzando la rosa. Bene in Europa, per la sua grande esperienza. Fuori dalla Champions solo per la parata di Alisson su Milik». 
Ha allenato nazionali e club fuori dai nostri confini: cosa rimpiangeva dell’Italia calcistica durante quelle esperienze? E cosa porterebbe a casa da quei modi di fare calcio?
«In Russia avrei voluto la nostra organizzazione tattica. Da noi avrei voluto il pubblico della Premier e della Liga».
Presidenti e arbitri in Inghilterra sono spesso illustri sconosciuti: in Italia sono protagonisti. È uno dei nostri difetti e dei loro pregi?
«Certo. Lì i presidenti parlano pochissimo e usano magari un comunicato per cacciare un allenatore... E gli arbitri lasciano giocare e il pubblico al massimo borbotta».
Liverpool o City, quest’anno?
«Il Liverpool gioca un calcio fantastico. L’ho visto contro l’Arsenal: impressionante. Bravissimo Klopp. Il City, però, resta la superpotenza che investe ogni anno. Club ricco e moderno. Sempre in crescita. E Guardiola ha cambiato gioco, con interpreti veloci che verticalizzano. Stop al possesso. Siamo noi che abbiamo copiato il peggio del guardiolismo. Diamo sempre il pallone indietro. Al portiere». 
Che consigli darebbe a Guardiola e Klopp se dovessero venire in Italia?
«Di farsi comprare i campioni. Le vittorie dipendono solo da loro. Contro questa Juve e senza top player, anche loro non avrebbero scampo». 
Spingere sulla tecnologia o sulla preparazione arbitrale?
«Tecnologia e tempo effettivo. Ogni partita deve durare gli stessi minuti. Il campionato sarebbe più regolare». 
In Inghilterra dopo anni e anni il calcio è senza hooligans (li porta all’estero) e senza incidenti: cosa dovremmo imitare?
«Prendere decisioni vere. Con regole nuove. Basta striscioni, petardi, insulti e buu. Con la Federcalcio devono però collaborare i presidenti, gli allenatori e i calciatori. Partendo dal saluto al pubblico a centrocampo, a fine partita, e non sotto la curva. Permesso solo fuori casa, per ringraziare chi si è messo in viaggio per seguirti». 
Le Wags sono nate in Inghilterra e lei ne sa qualcosa: belle da vedere ma fastidiose oggi?
«Sono cresciuto con i presidenti-padroni, ci sentivamo merce di scambio. Poi i procuratori e le wags. Che probabilmente influenzano gli stessi giocatori. Ora contano i social. È l’era moderna. Bisogna accettarla e viverla. Le società allenano anche le wags... Prima subivano solo qualche capriccio di poche mogli. Ma oggi se non sei social, quasi non conti. Io, no. Niente». Anti-social, detto con simpatia.