Corriere della Sera, 3 gennaio 2019
Vivere a lungo? Al nord è più facile
Quando si parla di diseguaglianze, di solito in Italia e in Europa l’attenzione si concentra sui redditi o sui patrimoni degli abitanti. I flussi di guadagni di anno in anno tendono a favorire i ceti più forti in Italia, in Grecia o in Portogallo, secondo le stime dell’Ocse. La ricchezza finanziaria o in immobili è invece più concentrata in Germania o in Austria. Meno spesso però in Europa si guarda a uno dei motivi per i quali essere ricchi aiuta: allunga l’esistenza, o almeno le probabilità di essere in media più longevo grazie al luogo o al modo in cui si vive e alle cure mediche che ci si possono permettere.
Dopo la Grande recessione, questo sta diventando uno dei campi principali nei quali prende forma una diseguaglianza crescente fra italiani: possiamo contare su vite più o meno lunghe e abbiamo aspettative di longevità sempre più diseguali a seconda di dove nasciamo e di quanto si è potuto studiare da giovani.
Negli Stati Uniti Raj Chetty di Harvard ha dimostrato che le differenze non si limitano a favorire coloro che guadagnano di più rispetto a chi guadagna meno. La disuguaglianza nella longevità filtra fino al vertice della società: lo 0,1% a più alto reddito – persone con entrate da almeno cinque milioni all’anno – può contare su una vita media circa di sei mesi più lunga rispetto a chi guadagna due o tre milioni l’anno. L’Italia sta meglio, nel complesso. Secondo la «World Population Review» il Paese vanta la terza speranza di vita più alta al mondo, di quattro anni circa superiore agli Stati Uniti. Questo indicatore esprime il numero di anni medio che ogni neonato ha probabilità di vivere e non riflette solo l’allungarsi della vecchiaia: l’aspettativa media cresce per esempio grazie al calo della mortalità infantile, o degli incidenti d’auto.
In questo l’Italia viene da un quindicennio di successo: nel 2002 la speranza alla nascita era di ottant’anni e da allora è cresciuta quasi di tre. Una delle ragioni è la copertura universale, finanziata dalle tasse, del servizio sanitario nazionale: l’Osservatorio sulla salute dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma mostra che l’Italia è a livelli scandinavi per la percentuale particolarmente bassa di adulti con al più la licenza media che dichiarano di stare «male o molto male». In Italia sono uno su dieci, fra le persone meno qualificate; poco meno di due su dieci invece in Germania o in Olanda, dove prevalgono le assicurazioni sanitarie individuali basate sui contributi.
Un’occhiata sotto ai grandi numeri rivela però dinamiche poco rassicuranti anche per l’Italia. Per la prima volta in quindici anni il 2017 segna un calo dell’aspettativa, secondo l’Istat. Oggi la longevità attesa è di 82,7 anni, un decimo in meno rispetto al 2016 che non fa già una tendenza ma senz’altro accende una spia. Soprattutto, la durata della vita in Italia sta diventando sempre di più un marcatore di ubicazione geografica degli abitanti, oltre che di ceto. A Milano si vive più a lungo che nelle altre provincia lombarde – sempre in media – mentre soprattutto le provincie di Caserta e Napoli compongono un preoccupante Paese a sé: lì la speranza è la più bassa in assoluto e la mortalità degli adulti tra i trenta e i settant’anni è quasi fuori dai grafici sull’Italia, di un quarto superiore alle medie (forse per l’intossicazione dei suoli ad opera delle mafie dei rifiuti).
Impressiona anche la velocità con cui in Italia si stanno aprendo le linee di faglia fra vincenti e perdenti della speranza di vita. Il caso più evidente è lo scarto fra la Calabria e la provincia di Trento dal 2005 in poi, secondo un rapporto inedito dell’Osservatorio sulla salute della Cattolica di Roma sulla base di dati Istat. In poco più di un decennio i calabresi hanno visto aggravarsi di un anno e mezzo il loro ritardo sui trentini. Per entrambe le regioni la vita media fra il 2005 e il 2016 naturalmente si è allungata, per nessuna è regredita come negli Stati Uniti. Eppure per chi nasce a Trento la crescita dal 2005 è stata di circa due anni e mezzo, a quasi 84 anni; per i calabresi invece di poco più di un anno, fino a 82,3. In generale nell’ultimo decennio Calabria, Sicilia e Campania sono peggiorate rispetto alle medie nazionali e viaggiano sempre più al di sotto.
Al contrario le aree dove la speranza di vita cresce più in fretta ed è più alta delle medie italiane sono soprattutto a Nord-Est: oltre al Trentino-Alto Adige, anche il Veneto e in parte l’Emilia Romagna. Fanno riflettere poi anche le diseguaglianze fra grandi città e centri minori in aree con redditi e patrimoni familiari simili. A Milano l’aspettativa di vita, a poco più di 83 anni e mezzo (giusto sotto il primato di Firenze a 84 anni), è oggi di oltre un anno e mezzo superiore a quella delle provincie di Pavia e Cremona, batte Lodi di un anno e Bergamo di sei mesi. Il maggiore inquinamento di Milano farebbe prevedere il contrario, ma la qualità degli ospedali del capoluogo fa probabilmente la differenza sul resto della Lombardia. Ma ancora più profonde in Italia sono le differenze di ceto o titolo di studio: la differenza di longevità media fra chi ha al massimo la licenza elementare e chi ha almeno un diploma delle superiori è di cinque anni a favore dei secondi.