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 2019  gennaio 02 Mercoledì calendario

16 gennaio 1969, il giorno in un Palach si diede fuoco

Il tranviere praghese che cinquant’anni fa, nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969, si tolse il cappotto cercando di spegnere le fiamme che avvolgevano il corpo dello studente Jan Palach, non immaginava di finire nei libri di storia. Agì d’impulso, dopo aver notato con stupore il giovane versarsi sui vestiti un liquido oleoso da una lattina bianca. In piazza San Venceslao, davanti al Museo Nazionale, il centro simbolico della Cecoslovacchia occupata l’estate prima dai carri armati sovietici, i passanti erano infreddoliti e indifferenti. Un attimo ancora, ed ecco il giovane in mezzo a loro divampare come una torcia. Benzina, ecco cos’era – questo pensiero passò in un attimo attraverso la mente del tranviere, subito seguito da un altro: devo spegnere il fuoco. Ma la sua prontezza di riflessi servì soltanto a prolungare le sofferenze del suicida: le ustioni risparmiarono il viso e la parte superiore del corpo, permettendogli di sopravvivere tre giorni dopo il ricovero in ospedale, ma a prezzo di dolori insopportabili.
Era stato il gesto estremo, ispirato a quello dei monaci buddisti in Vietnam, di uno studente di filosofia: idealista, pazzo, fanatico, o lucido oppositore del regime comunista che stava avviando la «normalizzazione» del Paese? Benché una certa aria di mistero non abbia mai smesso di avvolgere la sua impresa, oggi viene da collocarlo piuttosto nella cerchia ristretta dei martiri, intendendo con questa parola coloro che si pongono al di là della soglia segnata dall’istinto di conservazione, ben addentro alla landa misteriosa segnata dai gesti impavidi e dalle pulsioni di morte.
Eroiche, del resto, era state le uniche parole che aveva rivolto al tranviere prima di arrendersi al dolore: «Salva la lettera!». Era un foglietto di carta, custodito insieme ad altri scritti in una borsa a tracolla che Palach aveva appoggiato qualche metro più in là. Annunciava la decisione di darsi fuoco per combattere «la disperazione e la rassegnazione» che incombevano sulla sua patria schiacciata sotto il tallone rosso. Ma, al posto dell’«io», prevaleva il «noi»: parlava cioè a nome di un «gruppo di volontari» che avrebbero deciso di immolarsi uno dopo l’altro, estraendo a sorte il nome della vittima successiva. L’«io» compariva soltanto dopo: «Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno...», e concludeva proprio così: «La torcia numero uno». La raccomandazione di «salvare la lettera», come il tranviere avrebbe compreso in seguito, non si riferiva al pericolo che finisse incenerita dalle fiamme, ma alla possibilità che la polizia politica la facesse sparire per ridurre la portata del suo gesto.
Ma già dal momento dei funerali solenni e impressionanti per le vie di Praga – «pietrificata», secondo una famosa definizione di Enzo Bettiza, allora fra gli inviati sul posto – prendeva corpo lo strano, doppio destino dell’eroe Jan Palach: quello simbolico e politico di martire per la libertà, destinato ad essere celebrato dagli anticomunisti di tutto il mondo negli anni a venire, e l’altro, oggetto di ipotesi, speculazioni e oscure manovre ad opera del regime. Anzitutto: esisteva a no il «gruppo di volontari» pronti a seguire l’esempio di Palach? Interrogativo cruciale per Mosca, costretta a tenere i militari consegnati in caserma il giorno dell’imponente corteo funebre, oltre 600mila persone, che sfilò silenzioso davanti al feretro collocato al fianco della statua di Jan Hus, altro eroe del libero pensiero boemo finito sul rogo. Secondo la ricostruzione di Jiri Lederer, in un libro d’inchiesta, poi ripresa nel film di Robert Sedlak uscito l’anno scorso, durante i suoi tre giorni di passione in ospedale, approfittando dei brevi momenti di lucidità, la polizia politica avrebbe spinto accanto al suo letto, per raccoglierne le confessioni riguardo ai presunti «complici», una sua amica d’infanzia e la fidanzata. Ancora: quale ruolo poteva attribuirsi alla madre del giovane, fino al giorno del suicidio normale funzionaria di partito addetta al controllo della corrispondenza, e a partire dal fatale 19 gennaio implacabile accusatrice del regime? Un film semi clandestino girato durante il funerale la mostra straziata accanto alla bara, velata di nero; nei mesi successivi si sarebbe rivolta a una avvocatessa coraggiosa, Dagmar Bureshova, per smontare le manovre della disinformazione ufficiale. (Un film di Agnezska Holland, Il roveto ardente, individua nel parlamentare comunista Vilèm Nòvy l’agente incaricato di costruire una versione fantasiosa, secondo la quale i servizi segreti occidentali avrebbero ingannato Palach, convinto fino all’ultimo di versarsi addosso un liquido non infiammabile). E non bisogna dimenticare il dibattito a sfondo religioso, di cui fu protagonista lo stesso Paolo VI, riguardo alla liceità del suicidio in circostanze estreme.
Alla maggior parte di questi interrogativi e false piste – compreso il tentativo della stampa filocomunista di far passare Palach per un «patriota socialista» – è seguita la replica della storia. Dopo Palach, sia che facessero parte della squadra, o che si fossero liberamente ispirati a lui, altri giovani come Jan Zaijc, Evzhen Plocek e il polacco Ryszard Siwiec si diedero fuoco, nel silenzio dei principali media occidentali, occupati a celebrare le imprese dei sessantottini di casa nostra. L’avvocatessa che si batté contro la disinformazione comunista, dopo la caduta del regime, sarebbe divenuta ministro della Giustizia. E, vent’anni dopo quei fatti, durante le commemorazioni per la «Settimana Palach», l’ultima repressione che precedette la «rivoluzione di velluto» vide fra gli arrestati un certo Vaclav Havel, destinato a presiedere la Cecoslovacchia libera.