il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2019
Donne costrette a non firmare le loro opere, per necessità o marketing
Nel 1868, negli Stati Uniti, usciva il romanzo LittleWomen: or Meg, Jo, Beth and Amy (Piccole donne) di Louise May Alcott (1832-1888), la cui fama sopravvive ancora. Meno noto invece è che, nel medesimo 1868, la Alcott dava alle stampe il romanzo breve gotico-sentimentale The Baron’s Glove; or Amy’s Romance (I Guanti del Barone o La storia di Amy), ambientato fra la Germania romantica di Heidelberg e la Svizzera, che apparve anonimo sul settimanale Frank Leslie’s Chimney Corner. Il libro faceva parte della produzione popolare, tra racconti d’amore, sensazionali e del mistero, che la scrittrice americana aveva avviato verso il 1865 e che era solita firmare con lo pseudonimo di A.M. Barnard. A pochi giorni dal ricorrere dei 150 anni di Piccole donne, la casa editrice Biblioteca del Vascello-Robin pubblica in traduzione italiana I Guanti del Barone o La storia di Amy (pagine 143, euro 14).
La riscoperta delle narrazioni minori e di genere della Alcott-Barnard riapre nuovamente il capitolo della letteratura al femminile costretta a lungo, ancora nel Novecento, a presentarsi spesso con firma anonima o con un nom de plume maschile. Erano scrittrici e poetesse obbligate a celarsi dalla società maschilista, dai pregiudizi radicati, dalle consuetudini accettate. Una donna che si dichiarava letterata di mestiere era giudicata più che sconveniente. E pochissime erano riuscite a infrangere i tabù come Christine de Pizan (1365-1430), che si guadagnava da vivere scrivendo. Più di un travaglio era toccato a Félicité des Touches, protagonista del romanzo Béatrix di Honoré de Balzac. Nota “nel mondo delle lettere con il nome, maschile, di Camille Maupin”, rammenta Clara Sereni nell’introduzione al libro, vedrà svanire “l’illusione di essere insieme scrittrice e innamorata”, e di essere felice; sarà indotta a scegliere il silenzio del convento. Alle donne era precluso il diritto di mostrare apertamemte il proprio talento. Così, come afferma Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé, c’era “il retaggio di un senso di castità che imponeva l’anonimato alle donne persino nell’Ottocento. Currer Bell, George Eliot, George Sand, tutte vittime di un travaglio interiore, come i loro scritti dimostrano, cercarono invano di velarsi dietro un nome di uomo”.
L’elenco delle scrittrici anonime, con cognome maschile oppure con mascherature della reale identità sia pure al femminile, è lunghissimo. E alla rinfusa si può rammentare, tra le tante, la citata George Eliot (il vero nome è Mary Ann Evans), George Sand (Aurore Dupin de Francueil), le tre sorelle Brontë (Currer Bell, cioè Charlotte; Ellis Bell, ovvero Emily Brontë; e Acton Bell, ossia Ann). Senza dimenticare altri pseudonimi famosi: da “A Lady” (Jane Austen) alla nostra Marchesa Colombi (al secolo Maria Antonietta Torriani), dalla Contessa Lara (Evelina Cattermole), a Sibilla Aleramo (Rina Faccio). Fino all’ormai non troppo misteriosa Elena Ferrante, quasi certamente nella realtà la coppia coniugale composta da Anita Raja e da Domenico Starnone, che tuttavia è ricorsa al velo non per necessità, ma per altre ragioni: non ultime quelle dettate dal mercato editoriale.
Al Novecento maturo, non nel campo letterario bensì in quello dell’arte, appartiene poi il caso della pittrice americana Margaret Keane, rilanciato dal film Big Eyes (del 2014) di Tim Burton. Racconta la storia vera di Walter e Margaret Keane, tra gli anni ’50 e i ’60. Quando i due divorziarono, Margaret rivelò che era stata lei a dipingere i quadri che avevano reso famoso il marito. Anche qui, in fondo, valeva ciò che era stato sostenuto da Virginia Woolf: come alle donne fosse stato impedito per secoli il diritto a godere del proprio talento.
Probabilmente la Alcott decise di farsi passare per A.M. Barnard per ragioni principalmente letterarie. I suoi racconti popolari, infatti, vengono da lei stessa definiti, attraverso una delle eroine di Piccole donne, “infiammabili sciocchezze”. Ma non cambia la condizione femminile a cavallo tra Ottocento e Novecento, se Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura, avrebbe dovuto rimarcare contro il pregiudizio che “una donna scrittrice può essere onesta”.