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 2019  gennaio 02 Mercoledì calendario

La vendita dei marchi italiani all’estero non fa poi tanto male

A Novi Ligure, oltre cento dipendenti della Pernigotti, di proprietà turca, rischiano il posto. A Bergamo, tocca a quelli della Italcementi. A Riva di Chieri l’incertezza riguarda l’Embraco e nel Torinese trema la torrefazione Hag – Splendid. Sono solo quattro casi recenti che hanno attirato commenti e critiche sulla gestione estera di imprese italiane. Anche quando non ci sono licenziamenti, si sente parlare di “Un altro pezzo del Made in Italy se ne va”, di “perdita dell’italianità” o del “sistema Paese che non difende il suo know how”. Ma a guardare bene il fenomeno degli investimenti diretti esteri in Italia, emerge che i capitali stranieri portano complessivamente più benefici che danni. E che l’economia italiana, sull’internazionalizzazione, è indietro.
Nell’ultimotrentennio c’è stata una forte crescita globale degli investimenti fuori confine. Secondo il rapporto Ice – Politecnico di Milano “Italia multinazionale 2017” si è passati dai 205 miliardi di dollari annui del 1990 ai 1.746 miliardi del 2016, con un’accelerazione recente. I tassi vicini allo zero e la ricchezza dei paesi emergenti hanno moltiplicati i capitali disponibili a viaggiare per trovare impieghi industriali remunerativi contribuendo alla crescita delle economie: più della metà dell’export cinese origina da multinazionali estere. Eppure, nonostante le attrattive del Made in Italy, l’Italia non è stata tra le prede preferite in questa caccia globale all’investimento.
Secondo i dati Istat, nel 2017 erano 14.616 le imprese italiane a controllo estero, con oltre 1,3 milioni di addetti, che realizzano un discreta fetta del Pil: 573 miliardi di euro (bilanci 2016). Meno, però, degli altri: lo stock di capitale in mani estere, 346 miliardi di dollari, è pari al 18,7% del Pil dell’Italia contro il 45,5% del Regno unito, il 45,2% della Spagna, il 28,3% della Francia e il 22,2% della Germania. A sbarrare le porte, un capitalismo fatto di poco mercato e molte relazioni, chiuso nei recinti del controllo familiare, con il corollario di una corruzione diffusa e di un sistema normativo e burocratico farraginoso. L’internazionalizzazione, poi, è scarsa anche per gli investimenti in uscita. Le 27 mila imprese estere controllate dall’Italia, con 1,3 milioni gli addetti e 426 milioni di euro di fatturato, hanno uno stock di capitale che è pari al 25% del Pil, contro una media Europea del 55%. Le cose sembra stiano cambiando. Secondo l’Ice, nel 2016 ci sono stati 29 miliardi di nuovi investimenti in imprese italiane, una crescita del 50 %. L’Italia è passata dal 18° al 13° posto della classifica mondiale. Nel 2018, per la prima volta dal 2004, è tornata nella classifica (della società di consulenza Usa At Kearney) dei dieci paesi più attraenti.
A questo nuovo interesse ha probabilmente contribuito la sfilza di agevolazioni, super ammortamenti e decontribuzioni introdotte dal governo Renzi (20 miliardi di euro solo nel 2017) e il costo del lavoro. Secondo Eurostat, l’Italia nel 2016 è stato l’unico paese dell’Ue dove il costo dell’ora lavorata è sceso: -0,8%, contro una crescita media dell’1,4%. Un’ora di lavoro è costata mediamente 27,8 euro, contro i 30,3 euro dell’Eurozona, i 34,1 della Germania e i 36 della Francia (che nonostante questo, però, attirano più investimenti). Per fare un esempio, i bilanci del gruppo bancario francese Bnp Paribas mostrano che lo stipendio medio pagato ai dipendenti di Bnl, prima grande acquisizione bancaria nel 2006, è stato nel 2017 di 52 mila euro, contro i 54,3 pagati ai loro colleghi francesi; i 71,9 dei belgi, gli 80,6 dei lussemburghesi.
A sorpresa, ci sono però vantaggi sul sistema economico. Secondo un’analisi dell’ufficio studi Prometeia, le imprese il cui quartier generale trasloca risultano più strutturate, solide e competitive, con crescite mediamente maggiori di fatturato ( + 2,8%), produttività (+ 1,4%) e occupazione (+ 2%).“L’internazionalizzazione dell’industria è senza dubbio positiva – dice Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Università di Trento ed ex direttore generale di Confindustria – anche se i confronti vanno presi con le pinze: le aziende che vengono scelte di solito sono le migliori”. E conta la dimensione: “Chi investe in Italia ha un mercato e una capacità finanziaria molto forte, mentre il capitale delle imprese italiane è di solito limitato”. Condizione che rende difficile stare sul mercato globale.
La moda, per dire, è uno dei settori più ambiti. La maggior parte delle grandi firme è in mani estere. L’ultima è stata Versace, finita al gruppo Usa Michael Kors, per 1,8 miliardi. Valentino è di un fondo del Qatar, Ferré di uno di Dubai, Krizia è andata ai cinesi di Marisfrolg Fashion; Bulgari, Fendi, Loro Piana e Pucci al gruppo francese Lvmh (Louis Vuitton Moët Hennessy), mentre Gucci è già da vent’anni all’altro gruppo francese di punta, Kering (ex Ppr), che ha poi aggiunto Bottega Veneta, Pomellato, Brioni. Secondo Deloitte, il fatturato medio delle aziende italiane del lusso (non solo moda) è di 1,4 miliardi di dollari, mentre per i gruppi francesi si parla di 5,8 miliardi e per gli Usa di 3,4. L’espatrio delle griffe non si è tradotto in perdite di lavoro in Italia. Gli artigiani e le maestranze italiane sono un asset di valore nel lusso e la produzione è rimasta in gran parte in Italia. Lo stesso vale per i direttori creativi. Certo, gli approcci predatori non mancano (vedi Parmalat). Ma non si può dire che a rapacità i capitani d’industria italiani siano migliori, tra fallimenti e buchi spesso colmati dalle casse dello Stato. Nelle prossime pagine, dieci casi di aziende del made in Italy passate in mani estere, tra esiti più o meno positivi. Per rendere significativo il confronto tra vecchia e nuova gestione, si sono prese in considerazione acquisizioni abbastanza recenti, successive a quella di Parmalat, nel 2011.