Il Messaggero, 2 gennaio 2019
Intervista a Wilbur Smith
La leggenda vivente del romanzo d’avventura, Wilbur Smith, ha dato alle stampe il suo ultimo romanzo, La guerra dei Courtney, (scritto con David Churchill) da domani in libreria, ambientato ai tempi della Seconda Guerra mondiale; ed è subito mito. Saffron Courtney e Gerhard von Meerbach si amano ma sono su fronti opposti: lei è una spia inflitrata e lui un eroico aviatore disgustato dal nazismo. Per lo scrittore sudafricano, 85 anni, si tratta del secondo libro edito con HarperCollins, dopo l’autobiografico Leopard Rock; e non finirà certamente qui.
Mister Smith, lei ha cominciato la sua carriera nel 1964 con il primo romanzo dedicato ai Courtney; una famiglia diventata una saga. Come ha fatto a non impazzire, senza seguire un ordine cronologico?
«Il mio editore inglese, BonnierZaffre, ha scoperto di recente che la saga dei Courtney – iniziata 54 anni fa è la più longeva di un singolo autore, nella storia dell’editoria moderna. Abbiamo battuto anche Agatha Christie, che aveva fatto un bel tratto di strada con il suo beneamato detective Poirot. È un grande onore per me e per i miei fan, che mi hanno incoraggiato in tutti questi anni. La serie è iniziata con Il destino del leone, pubblicato nel 1964, ma ambientato nel 1880. Quando questa famiglia è cresciuta e ha cominciato a parlarmi, ha compiuto salti nel tempo, dal Seicento di Uccelli da preda fino alla corsa all’oro, alla nascita del Sud Africa e, attraverso la prima e la seconda guerra mondiale, ai nostri giorni».
Crede che metterà la parola fine a questa saga, un giorno?
«Mio nonno era un grande raccontatore di storie, capace di farti uscire gli occhi dalle orbite, quando parlava. In gioventù aveva guidato un gruppo di mitragliatori Maxim durante la Guerra degli Zulu. Il suo nome era Courtney James Smith. È a partire da lui, dal suo spirito, che sono iniziate le grandi avventure della famiglia Courtney. Sarebbe così contento di sapere che questi personaggi sono ancora vivi oggi, tanti anni dopo la sua morte. Se fosse qui, sono sicuro che insisterebbe affinché continuassi a scrivere di loro in futuro».
Nel suo nuovo romanzo, un’eroina ha l’onore della ribalta: Saffron Courtney. Si è ispirato a qualcuna delle tante spie britanniche di quel tempo?
«Non c’è nulla di più eccitante di una donna forte che lavora sotto copertura per una buona causa, contro le forze del male. Saffron è più una Courtney e un’africana, piuttosto che una qualunque famosa spia dell’epoca. Il piano è semplice. Create un eroe forte, e poi gettatelo in una situazione pericolosa. L’immaginazione farà il resto del lavoro».
Il padre di Saffron, come sappiamo dal romanzo precedente, è il ricco proprietario di un impero di terre e di miniere, Leon. E ha passato la sua infanza in Kenya. Questo quanto l’ha influenzata nella sua età adulta?
«Saffron, come molti Courtney, è una donna piena di risorse, che deve la forza e il carattere alla terra in cui è cresciuta. Suo padre ha messo la famiglia diverse volte in difficoltà, mentre cercava fortuna. Per questo Saffron non è affatto estranea al pericolo, in ogni sua forma e declinazione».
Già, ma c’è un problema: la bella eroina inglese è innamorata di un tedesco, Gerhard von Meerbach. Che combatte per il suo nemico.
«Sin dai tempi di Romeo e Giulietta, il destino degli amanti combattuti da forze estranee è un tema affascinante da esplorare. Cosa c’è di meglio della tensione di una guerra, con i due amanti in fronti opposti del conflitto? Tra tutte le barriere all’amore, la guerra è la più efficace».
Lei è riuscito a rendere un tema come l’Olocausto avvincente, in un’opera di finzione; ma ne ha scritto anche realisticamente. Come bisogna accostarsi, da scrittori, a quell’orrore?
«Delicatamente. In queste situazioni è meglio mostrare il meno possibile. L’Olocausto è stato descritto ampiamente, da tanti grandi autori e registi. Se decidi di scriverne, devi essere sicuro che scaturisca genuinamente dal tuo lavoro: non dev’essere un elemento a effetto inserito nella storia. Cerca di farlo tuo, di raccontarlo in un modo nuovo».
Come compie le ricerche per i suoi romanzi?
«Faccio soltanto ricerca di prima mano. Non porto mai con me un taccuino, non scrivo appunti. Nel caso della Seconda Guerra mondiale, sono stato in ogni parte d’Europa. Vivo l’avventura e poi racconto la storia».
È stato ispirato dai veri addestramenti degli agenti segreti nel Regno Unito, scrivendo di Saffron, o ha lavorato di fantasia?
«Ai tempi di Un’aquila nel cielo (il 1974, ndr), ho lavorato a stretto contatto con ex militari che mi hanno spiegato come funziona la guerra. Ho anche ricevuto inaspettati suggerimenti, qua e là, da alcuni veri e propri leader nel proprio campo. Non scorderò mai quando ricevetti un opuscolo dal dottor Beretta dopo la pubblicazione di La legge del deserto (2011): apprezzava che i suoi prodotti fossero menzionati nei miei romanzi. Se avessi voluto saperne di più, c’era tutto nel catalogo; altrimenti, avrei potuto fare un giro del loro stabilimento. Cosa che poi feci, per delle ricerche sui fucili che stavano producendo per l’esercito britannico».
Oltre ai Courtney lei ha scritto anche la serie dei Ballantynes, quella su Hector Cross, i romanzi egiziani. Qual è il personaggio a cui si sente più legato?
«Amo tutti come se fossero miei figli, ma ovviamente ho alcuni personaggi preferiti. Taita (il medico-mago, ndr) mi è molto vicino e mi richiama sempre all’Antico Egitto».
Quale avventura ci racconterà nel prossimo romanzo?
«Sono molto felice di annunciare che il mio nuovo libro, Il re dei re, sarà un sequel de Il trionfo del sole, in cui i Ballantyne e i Courtney si ritroveranno in una esplosiva situazione politica in Africa, alcuni anni dopo il loro ultimo incontro durante l’assedio di Khartoum».