La Stampa, 2 gennaio 2019
Picasso, Castro e la Garbo... Ezio Gribaudo racconta il suo Novecento. Un’intervista
Ezio Gribaudo siede sul divano bianco al centro della Wunderkammer che ha costruito in 70 anni di ricerca del Bello. Studio-feticcio ai piedi della collina torinese, che è diventato opera d’arte in sé, popolando il cubo di cemento – progettato nel 1974 dall’amico Andrea Bruno – di piramidi iperuraniche, dinosauri volanti, gabbiette in cui nidificano pesci, mappamondi che rinunciano ai confini per mirare al cosmo. Babele allegra e polifonica, abitata da segni, simboli, figure appartenenti a molteplici mondi in cui, alle soglie dei novant’anni, Gribaudo abita con la leggerezza di un geniale Peter Pan senza tempo. Maglione di cachemire a contrastare la rigida temperatura mantenuta per non danneggiare le opere d’arte, sciarpa grigia e bastone con manico d’avorio, accetta di ripercorrere a piccoli passi la sua straordinaria vita di artista totale ed editore in cui ha conosciuto buona parte dei grandi del mondo, vinto premi straordinari e assistito alla nascita di movimenti. Da Fidel Castro a Pablo Picasso passando per Miró, Moore, Fontana e Burri. Per ognuno di loro distilla con candida lucidità – d’altronde il suo colore preferito è il bianco (al punto che Giorgio De Chirico lo definì in una celebre lettera «leucofilo») – un aneddoto capace di restituire fresco come appena vissuto, il dna di epoche ingiallite dal tempo. I pensieri escono affastellati, ma vividi, come da un archivio in cui c’è tutto: basta sapere cercare.
Maestro, vogliamo cominciare da questa foto appesa al muro che immortala un biondo ragazzo al fianco di Pablo Picasso?
«Era l’estate del 1951. Lo incontrai nella sua casa di Vallauris, ero da quelle parti perché andai a vedere una corrida a Mougins in cui si esibiva il suo amico Dominguin. A scattarci quella foto fu l’architetto Mario Oreglia. Io ero molto giovane e ricordo che mi colpì subito il magnetismo che quell’uomo emanava, il suo sguardo nerissimo e penetrante. Mi chiese degli artisti italiani incontrati a Parigi, da Soffici a Magnelli, e poi di altri pittori contemporanei. Io non vedevo l’ora di sapere a cosa stesse lavorando lui, in quei giorni. E la risposta fu spiazzante. Mi indicò delle scatole da scarpe che stavano per subire una trasformazione. «Aujourd’hui j’ai fait les jeux pour les enfants» rispose. Stava costruendo alcuni giochi per i piccoli Claude e Paloma. Inutile dire che avevano già l’aria dei capolavori. Fu un grande privilegio incontrarlo. Così come accadde per un altro grande artista contemporaneo di Picasso, Giorgio De Chirico. Con lui, però, nacque una solida amicizia».
Amicizia ben raccontata in quelleMemorie ritrovateedite da Skira nel 2008. È pieno di belle foto, a partire da quella di De Chirico sotto la lapide apposta sulla facciata della casa di Torino dove abitò Nietzsche.
«Sì, e quell’immagine è la conferma che il pensiero del filosofo tedesco e la mia città sono tra i principali ispiratori dei concetti di Metafisica. Ma per raccontare il mio legame con De Chirico, mi creda, non basta un libro. Pensi che nel ’68 – ci conoscevamo da pochi mesi – venne a Parigi alla mia mostra alla Galerie de France e fu per me un evento straordinario. Era partito da Roma per venire a Torino dove si fermò un paio di giorni per controllare i nostri progetti editoriali, e poi con il treno andammo insieme a Parigi. Là lo accompagnai alle «Éditions des Quatre Chemins», piccola casa editrice che negli anni 20 aveva pubblicato alcune sue litografie con un testo introduttivo di Jean Cocteau. Poi andammo a vedere una grande mostra di Ingres: ricordo che la sua attenzione era sempre rivolta alla maniera in cui i quadri erano dipinti, non all’aspetto lirico della rappresentazione».
Quale tratto del suo carattere la colpiva di più?
«Era un uomo dotato di grande ironia. A Parigi parlava sempre in italiano e a Roma in perfetto francese. La moglie Isabella Far una volta mi disse: “Lei che è così rassicurante e autorevole con Georges, che la sta molto a sentire, perché non gli dice di rifare le opere della sua giovinezza?”. Si riferiva a quelle del periodo metafisico, l’incanto delle prime Piazze d’Italia con le immense stazioni deserte sormontate dagli orologi, le fughe dei porticati, le statue classiche e il misterioso gioco della luce meridiana. Tutte le opere di De Chirico sono come un vasto arcipelago di isole vulcaniche».
La sua vita artistica è stata più segnata da questo incontro o dall’assidua frequentazione con Dubuffet?
«Con Jean fu un’altra cosa. La nostra è stata un’amicizia più assidua. Spontanea come l’arte che inventò, l’Art Brut. Lui faceva parte di un’avanguardia dichiaratamente anticulturale, se per cultura si intende qualcosa che soffoca, livella, genera tenebre. Fu il critico Renato Barilli a farci incontrare a Parigi, nel suo studio, dove eravamo andati per parlargli del libro dedicato al ciclo dell’Hourloupe, uscito poi nel 1976 da Fratelli Fabbri. E lì ci piacemmo subito, molto. Nel 1978 portai a Torino, con il sostegno della Fiat, il suo spettacolo Coucou Bazar,rappresentato prima solo al Guggenheim di New York e al Grand Palais di Parigi. Era un genio, ma anche una sorta di misantropo e – un po’ come De Chirico – aveva dentro, ben nascosta, una grande “cattiveria”, e una sorta di amarezza».
Cattivo come un taglio di Fontana?
«No, guardi, Fontana non era né cattivo né tagliente, a dispetto delle sue opere d’arte. Era uomo di straordinaria simpatia e grande umiltà. Mi spediva cartoline da New York dove scriveva: “Dove sei finito? Ti aspetto qui”. Il Concetto spaziale New York lo creò apposta per me, nel 1961, di ritorno dal viaggio nella Grande Mela».
Anche Miró le dedicò un disegno, con sopra scritto “Le privilège d’être Gribaudo”.
«Sì, un altro personaggio infinito, uomo dolce e gentile, e contrariamente alla lettura surrealista poteva sembrare un mite ragioniere dal carattere allegro quanto eclettico. Ha presente i suoi murales?».
Lei ha conosciuto i grandi del mondo. Riesce a definirli in un aggettivo?
«Proviamoci».
Fidel Castro.
«Trascinante».
Greta Garbo.
«Sublime».
Peggy Guggenheim.
«Solare».
Henry Moore.
«Monumentale e mammone».
Ezio Gribaudo.
«Lascio lo spazio in bianco. Come i miei quadri preferiti».