La Stampa, 2 gennaio 2019
Il Senato, l’ostacolo degli esecutivi da Prodi a Conte
E così, dopo aver eliminato la povertà, la corruzione e l’immigrazione, il governo del cambiamento sembra ora impegnato nella missione più impensabile: eliminare la propria maggioranza al Senato e, dunque, addirittura se stesso. Infatti, dopo l’espulsione dal Movimento Cinquestelle dei senatori De Falco e De Bonis, i numeri nell’aula di Palazzo Madama si sono ulteriormente ristretti: il margine di sopravvivenza si è ridotto ad appena quattro voti, e non è detto sia finita qui. Tra una sciata e l’altra, infatti, Luigi Di Maio ha comunicato che se altri parlamentari grillini non sosterranno il contratto di governo, verranno cacciati via: “Anche a costo di andarcene tutti a casa”. Potrebbe sembrare una boutade, ma non è così. In effetti, tornati sulla terra da quella sorta di mondo parallelo fatto di sondaggi, like e dirette Facebook, il governo del cambiamento si è ritrovato faccia a faccia con la realtà: che non è cambiata, e che vede il Senato palla al piede di questo governo come di ogni esecutivo da almeno un decennio a questa parte. Sarà colpa di leggi elettorali imperfette (per usare un eufemismo) o di singoli dissensi politici (assai frequenti a seggio raggiunto) fatto sta che la maggioranza gialloverde sembra aver ora imboccato una via lastricata di insidie, ma nient’affatto sconosciuta: da Renzi a Gentiloni, passando per Berlusconi e Prodi, di recente non vi è stato premier, infatti, che non abbia dovuto impiegare tempo, pazienza (e talvolta quattrini...) per tenere in vita una solitamente già risicata maggioranza nell’aula di Palazzo Madama. Romano Prodi, per dire, nella sua seconda esperienza a Palazzo Chigi (2006-2008) ha dovuto fare i conti con i dissensi di Turigliatto, Rossi e la “pattuglia comunista”, prima di esser costretto alla dimissioni da Clemente Mastella. Calvario in parte analogo toccò a Silvio Berlusconi che però, con meno tatto, non si fece problemi ad acquistare (letteralmente) voti in Senato per sé o per indebolire l’avversa maggioranza in carica. E Matteo Renzi, infine, ha governato tre anni avendo quasi quotidianamente il problema di scissioni, abbandoni di singoli e dissensi politici a raffica. Del resto, i numeri sono numeri: a fronte di un quorum di maggioranza assoluta al Senato di 158 voti, il secondo governo Prodi ne aveva 166, l’ultimo Berlusconi 173, Renzi 169, Gentiloni 164 e il governo del cambiamento appena tre in più (167), già erosi però da dissensi ed espulsioni. E allora farebbe forse bene Giuseppe Conte a cominciare a preoccuparsi: e magari chiedere consiglio ai predecessori – chissà – su come si sopravvive con una maggioranza che oggi c’è ma domani chissà... Malattie vietate, permessi e missioni cancellate, presenza obbligatoria ad ogni voto che conti e tante solenni sedute trasformate in thrilling. I segretari d’aula dei partiti di maggioranza impegnati ad assicurare la presenza di ogni singolo senatore, costi quel che costi. Una pratica del governare trasformata in una passeggiata sull’orlo del burrone. Trattative e inconfessabili mediazioni per convincere i senatori “dubbiosi”. E poi, sempre e comunque, la suspance per un voto che non sai mai come andrà davvero. In fondo, anche questa è politica. I giallo verdi, naturalmente, direbbero che è “vecchia politica”: e sicuri che la paura di elezioni anticipate condurrà a più miti consigli dissidenti e potenziali traditori, non mostrano preoccupazioni. Forse hanno ragione. Ma fossimo in Di Maio, useremmo con più prudenza la minaccia del “tutti a casa”. Faccende cosi, infatti, a volte sfuggono di mano: e possono perfino riservare amarissime sorprese.