la Repubblica, 2 gennaio 2019
Intervista a Richard Blair, il figlio di George Orwell
Appena entrati nella sua graziosa villa inglese con giardino, mentre rintocca l’orologio a pendolo, in corridoio ci saluta una statuetta. A osservarla bene, è la miniatura di quella all’ingresso degli studi della Bbc in Portland Place, a Londra, dove alle sue spalle sul muro c’è inciso: “Se libertà significa ancora qualcosa, questa è il diritto di dire alle persone ciò che non vogliono sentire”. Firmato: George Orwell. «Sì, tempo fa ne ho chiesto una copia per me», spiega Richard Horatio Blair, unico figlio del leggendario scrittore, che lo adottò nell’autunno del 1944 da una povera donna inglese col marito al fronte. «Così Martin Jennings», lo scultore della statua di Orwell alla Bbc finanziata tra gli altri da Ian McEwan, Ken Follett e Tom Stoppard, «ha acconsentito ed eccolo qui, mio padre George».
Va bene la statua, ma nel nome del padre, quello no. Richard Blair, 74 anni, non ha mai voluto chiamarsi Orwell, con il quale l’autore di 1984 rimpiazzò il suo vero nome Eric Arthur Blair, per due motivi: suonava bene e soprattutto per non “sporcare” il cognome di famiglia mentre faceva il vagabondo per documentare alla Dickens le condizioni degli ultimi in Inghilterra. «Non mi sentivo all’altezza», dice Richard Blair, «e poi ho sempre preferito vivere dietro le quinte, mi andava benissimo la mia vita di agricoltore prima e poi di rappresentante marketing».
A proposito di 1984. Richard Blair vive in questa casa nello Warwickshire proprio dall’anno del capolavoro in cui Orwell aveva predestinato il trionfo del totalitarismo in Occidente. Non solo: suo padre scrisse 1984 proprio dopo aver adottato Richard, nella remota isola di Jura, in Scozia. «È una storia molto triste», avverte il signor Blair, capelli lisci bianchi, occhi densi e occhiali retti e leggeri, oggi a capo della Fondazione Orwell che gestisce diritti ed eredità letteraria di uno degli scrittori più amati e letti di sempre. Primi anni Quaranta, piena Seconda guerra mondiale. Orwell è un patriota, vorrebbe andare al fronte. Ma le pessime condizioni di salute glielo impediscono: dopo la Guerra civile in Spagna (dove si è beccato pure una pallottola in gola) e il suo Omaggio alla Catalogna, lo scrittore scopre di avere la tubercolosi, che non lo abbandonerà più. Viene afflitto da bronchiti e altri gravi acciacchi. Almeno però, l’Observer l’arruola per qualche reportage di guerra, ha sempre il lavoro a tempo pieno alla Bbc (radio e contropropaganda antinazista) e poi La fattoria degli animali, il suo primo grande successo planetario, arriva di lì a poco, il 17 agosto del 1945. Cinque mesi prima però, mentre Orwell è nella tedesca Colonia per un articolo, muore l’amata moglie Eileen per le complicazioni di un’isterectomia. «Allora molti amici di papà cominciano a dirgli “Molla quel bambino adottato”, “Non puoi tenerlo nelle tue condizioni, senza tua moglie”, “Lascialo perdere!"…», ricorda Richard. «Ma lui mi adorava, mi aveva voluto fortemente perché sapeva di non poter avere figli e, nonostante stesse molto male, mi disse che non mi avrebbe mai lasciato. Anzi, abbandonò la Bbc per tenermi con sé.
Certo, sempre a debita distanza: le famiglie inglesi all’epoca molto difficilmente cedevano al contatto fisico e poi papà aveva paura di attaccarmi qualche malattia.
Avrei voluto qualche abbraccio in più. Ma se oggi sono in salute, è anche per merito di mio padre».
Father and son. È il cammino doloroso di un papà malato e del suo piccolo figlio, come La strada di Cormac McCarthy, in un mondo malvagio e tormentato. Anche qui il tempo stringe. Orwell sa di non averne molto. Rifiutato da diverse donne cui si era proposto e dopo la morte della sorella maggiore Marjorie, nella primavera del 1946 Orwell decide di mollare tutto a Londra e trasferirsi nella sperduta Jura, dove può concentrarsi sulla scrittura di 1984. Porta con sé la sorella minore (e unica rimasta) Avril, suo marito Bill Dunn, i figli della coppia e ovviamente il piccolo Richard. «Ricordo i ticchettii continui della macchina da scrivere nella stanza di sopra», racconta oggi Blair, «quando stava bene papà scriveva per tutta la mattina, e scendeva a pranzo con noi. Altrimenti non lo vedevo fino a sera e questo mi spiaceva».
Le memorie di Richard sono poche, ma custodite con cura.
Come quando il 19 agosto del 1947 rischiano di annegare tutti nel vorticoso golfo di Corryvreckan: «La barca si capovolge», riarrotola il nastro Richard, «papà riesce a spingerci verso un isolotto e intanto mi protegge con il suo corpo fino a quando non ci salva un pescatore», e ci mostra la sua foto. «Un’altra volta ho rischiato di spaccarmi la testa cadendo dal seggiolino mentre papà mi faceva un giocattolo di legno, adorava costruirli, ho ancora la cicatrice in fronte».
Poi, l’ultimo vero incontro tra padre e figlio. Orwell ha già terminato il suo romanzo, quello finale. Gli trova il titolo definitivo, invertendo le ultime due ultime cifre dell’anno corrente 1948.
Lo scrittore è stremato dalla malattia. A metà 1949, durante la traversata da Jura a un ospedale della terraferma, «la nostra macchina buca, Avril e Bill cercano di riparare la gomma, e io rimango da solo con papà. Nell’attesa mi parla e mi recita poesie, probabilmente improvvisate. È il mio ultimo vero momento insieme con mio padre».
George Orwell muore in ospedale il 21 gennaio 1950, a 46 anni, Richard lo viene a sapere dalla Bbc. Lascia la sua eredità letteraria a Sonia Bromwell, editor e archivista, forse la Julia di 1984, sposata tre mesi prima di spirare, a condizione che paghi gli studi del figlio adottivo. «Ma lei non voleva occuparsi troppo di me», spiega Richard, il quale va così a vivere con gli zii Avril e Bill. Dopo la morte di Sonia, poi, tutta la fondazione e il patrimonio letterario di Orwell finiscono a Richard Blair. Ancora oggi è una miniera d’oro. Il signor Blair non vuole rivelarci le cifre, ma nota che, per esempio, «in America gestirò i diritti delle opere di mio padre per almeno altri venti anni e proprio negli States, dopo che la consigliera di Trump Kellyanne Conway nel gennaio 2017 ha parlato di alternative facts le vendite di 1984 sono schizzate del 10.000 per cento in sei mesi. In questi tempi di manipolazioni e fake news, le cose andranno bene a lungo…». In casa, Richard ha molte carte ereditate dal padre. Innanzitutto il suo certificato di nascita, dove George Orwell ha bruciato con la sigaretta il vero cognome di suo figlio adottivo, per poi ritagliarlo e gettarlo via: «Per questo ho avuto enormi difficoltà a risalire ai miei genitori naturali», osserva Richard, «ma, lo vede, quanto mi voleva bene papà e quanto voleva che restassi con lui?
Sono il figlio ordinario di un uomo straordinario».
Poi ci sono decine di lettere, ancora inedite, dello scrittore ad alcune ragazze. Ma a Richard manca qualcosa: i diari e le foto di Orwell durante la Guerra civile spagnola: «Gliele rubarono gli agenti sovietici del Nkvd», racconta Richard, «e da allora non ne abbiamo saputo più nulla. Sappiamo che sono a Mosca, ma la Russia non vuole farci accedere agli archivi. A me basterebbero anche solo le fotocopie. È l’ultima cosa che vorrei sapere di mio padre, l’ultima cosa che mi manca di lui. Ma ottenerla sarà impossibile, lo so».