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 2019  gennaio 02 Mercoledì calendario

Gli anniversari che finiscono con il 9

1949 – SupergaToccò a Dino Buzzati raccontare per il Corriere la tragedia del Grande Torino: «Un pallido, rossastro riverbero illumina ancora palpitando le muraglie della Basilica di Superga. Un pneumatico dell’apparecchio sta ancora bruciando, ma la fiamma cede, tra poco sarà completamente buio. Lo spaventoso disastro è successo alle 17.05. Superga era avvolta in una fitta nebbia. Non c’erano turisti, pellegrini, non una coppia di sposi in viaggio di nozze». La squadra più forte del mondo, «troppo meravigliosa per invecchiare» decise di entrare nella leggenda, e lasciare noi nella disperazione, in un piovoso pomeriggio di settant’anni fa, schiantandosi sulla collina della città che la idolatrava. Per anni ho conservato la copertina della Domenica del Corriere, 15 maggio 1949, che mio padre aveva sfogliato mille volte con amore. L’illustrazione di Walter Molino, da colori tenui e rispettosi, raffigurava un aereo che s’infrange contro un terrapieno; s’intravede appena la cupola dello Juvarra. Il disegno è attraversato da un nembo, un bagliore sinistro che scende dal cielo giusto per illuminare una didascalia: «Il tragico urto contro un muro della Basilica, a Superga, dell’aeroplano che riportava in Patria i calciatori del Torino e i loro accompagnatori». E più sotto, accanto alla data del disastro, 4-5-1949: «Sciagura di inaudite proporzioni; ma, rapito così in piena gloria, senza decadenza né sconfitta, il Torino resta ora invitto per sempre nella memoria». Quella magica squadra (una formazione da ripetere come un mantra: bacigalupo/ballarin/maroso/grezar/rigamonti/castigliano/menti/loik/gabetto/mazzola/ossola), emana ancora una forza prodigiosa perché le figure del mito vivono molte vite e molte morti: è la forza di ciò che ci allontana dal quotidiano e scuote di emozioni il nostro cuore.
Aldo Grasso
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1959 – CubaEra il 1° gennaio 1959, sessant’anni fa, quando il dittatore cubano Fulgencio Batista, personaggio corrotto e legato al crimine organizzato, fuggì dall’Avana, lasciando campo libero alla guerriglia capeggiata da Fidel Castro. Il leader della rivoluzione aveva guidato il fallito attacco alla caserma Moncada del 26 luglio 1953, era stato imprigionato, poi amnistiato e costretto all’esilio in Messico. Quindi era sbarcato sull’isola nel 1956 a bordo della nave Granma con pochi compagni (tra i quali suo fratello Raul, l’argentino Ernesto Che Guevara, Camilo Cienfuegos) e aveva avviato sulla Sierra Maestra la lotta armata conclusa con il disfacimento dell’esercito di Batista. Castro divenne primo ministro nel febbraio 1959 e avviò una politica di riforme economiche egualitarie che lo mise in urto con la borghesia e con gli Stati Uniti, abituati a considerare l’Avana un proprio satellite sin da quando avevano cacciato dall’isola i colonizzatori spagnoli nel 1898. Ben presto Cuba si avvicinò a Mosca, ruppe con Washington e divenne una delle frontiere più calde della guerra fredda. Un’azione di esuli anticastristi appoggiati dalla Cia venne sgominata alla baia dei Porci nell’aprile del 1961. E si sfiorò la guerra mondiale quando i sovietici installarono sull’isola missili atomici (poi ritirati) nel 1962. Sul piano interno Castro, capo carismatico quanto autoritario, eliminò tutti gli oppositori (spesso suoi ex compagni) e instaurò una dittatura comunista filosovietica con forti venature nazionaliste e terzomondiste, in contrapposizione all’«imperialismo nordamericano». Proprio il richiamo all’orgoglio patriottico del resto ha permesso al regime cubano di superare la crisi provocata dalla caduta dell’Urss e di sopravvivere tuttora, a oltre due anni dalla morte del suo fondatore.
Antonio Carioti
***1969 – LunaChe emozione quella notte di cinquant’anni fa. Era il 20 luglio 1969 e un’immagine sbiadita in bianco e nero arrivava sui nostri televisori mostrandoci in diretta il primo passo dell’uomo su un altro corpo celeste. Neil Armstrong, 38 anni e superpilota di jet, scendeva dalla navicella Aquila camminando sulla Luna nel Mare della Tranquillità accompagnato da Edwin Aldrin. Milioni di persone erano testimoni nei cinque continenti e papa Paolo VI guardava l’arrivo degli esploratori celesti dell’Apollo 11 da Castel Gandolfo. Molti storici ripetono che del XX secolo solo lo sbarco sulla Luna rimarrà a significare una vera conquista della nostra specie. Le parole pronunciate da Armstrong, stringate come nel suo stile, dicevano tutto: «Questo è un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo dell’umanità». «Noi ci andiamo perché è difficile», diceva il presidente americano John Fitzgerald Kennedy annunciando l’impresa nata per ristabilire una superiorità politica e militare degli Usa perduta dopo che l’Unione Sovietica aveva dimostrato la capacità di lanciare nello spazio lo Sputnik e poi Yuri Gagarin e di portare anche una minaccia senza limiti proprio dal cosmo. La Nasa, sull’onda del successo, proponeva balzi ancora più ardui, come il viaggio su Marte. Ma le vicende della Terra, dalla guerra in Vietnam alle crisi energetiche, affievolirono l’entusiasmo. Si riuscì solo a costruire lo Shuttle e la stazione spaziale, embrione prezioso di future collaborazioni verso altri pianeti. Ma l’anniversario della notte della Luna, con Tito Stagno in tv che trasmetteva l’evento, ora ha un significato diverso. Perché alla Nasa negli Usa e pure in Cina e in Russia ci si prepara a un ritorno sulle sabbie seleniche; per rimanerci questa volta, e imparare lassù come lanciarsi poi nel nuovo grande balzo, verso Marte.Giovanni Caprara***1979 – Delitto Ambrosoli
È la notte dell’11 luglio 1979 quando l’avvocato Giorgio Ambrosoli paga con la vita i suoi no a un certo modo di fare finanza, a un certo modo di fare politica, a un certo modo di fare economia. Nel buio di via Morozzo della Rocca, a Milano, insieme ai bossoli di una 357 Magnum, resta sull’asfalto il coraggio di un uomo solo, di quelli che contraddicono la società in cui vivono, i suoi vizi e le sue paure. Era un avvocato serio, intransigente, il commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona. Da cinque anni lavorava sui conti truccati del finanziere siciliano alleato di mafiosi, massoni, ministri, generali e cardinali. Aveva scoperchiato intrecci occulti, speculazioni, finanziamenti sporchi, benedetti dalle istituzioni finanziarie e coperti dalla politica. Sapeva di essere in pericolo. Ma aveva cancellato dal suo codice le parole compromesso e accomodamento, cosciente di quel che faceva, in nome dell’onestà e della legge, ha scritto Corrado Stajano nel memorabile libro sul delitto Ambrosoli, intitolato L’eroe borghese, quasi un ossimoro in un Paese costretto a definire eroe chi fa il proprio dovere. Assassinato dalla mafia, da un killer venuto dall’America su mandato di Sindona, l’avvocato Ambrosoli è il simbolo di quella resistenza civile che si oppone a ogni malaffare. In un anno tremendo, avvolto da altre tenebre che si chiamano terrorismo, Brigate rosse, piste nere, P2, collusioni infami, il suo nome è una eccezione luminosa che evoca un’altra Italia, più civile, onesta, perbene. Ai funerali di un servitore dello Stato e della legge non ci sono uomini delle istituzioni: Andreotti dirà che un po’ se l’è cercata. Ma quarant’anni dopo quella morte annunciata Ambrosoli vive nelle piazze, nelle strade e nelle scuole: è una bandiera civile da alzare con orgoglio, la bandiera dell’onestà e della democrazia.
Giangiacomo Schiavi
***1989 – il crolla del muro di BerlinoNella sua fenomenologia, fu un plastico esempio di quelli che Stefan Zweig definì «momenti fatali». L’annuncio in apparenza burocratico di Günter Schabowski: «Non c’è più bisogno di visti per passare i posti di confine». La domanda di un giornalista italiano, Riccardo Ehrman: «Da quando è in vigore la misura?». La risposta surreale, dopo uno sguardo distratto a un foglio già gettato via: «Per quanto ne so, da subito». Il Muro di Berlino crollò così, in quella sera del 9 novembre 1989, quando i fratelli separati dell’Est attraversarono il confine della vergogna a piedi o a bordo delle loro Trabant e i tedeschi furono «il popolo più felice della Terra». Nell’autunno prossimo saranno trascorsi trent’anni dalla data che pose fine in anticipo al «secolo breve» e cambiò la storia del mondo. Con il Muro caddero le dittature del socialismo reale, si frantumò l’Unione Sovietica, finì la Guerra Fredda, cessò l’equilibrio del terrore, l’Europa allargò i suoi confini verso Est, nacque la moneta unica, mentre il dividendo della pace ci regalò il world wide web, rampa di lancio della globalizzazione. Finì una Storia. Ne cominciò un’altra per la quale non eravamo affatto preparati, privi di un paradigma per affrontarla, tranne l’illusione non priva di arroganza che il sistema liberal-democratico, rimasto senza nemico, avrebbe finito per imporsi in tutto il pianeta. Ma la fine del mondo bipolare, odioso, ma prevedibile e regolato, ha aperto la scena globale a protagonisti nuovi e antichi, segnando il ritorno prepotente della geopolitica negli affari internazionali. Sono emersi i modelli autoritari, è risorto il nazionalismo, sono tornati di moda gli uomini forti, in una frantumazione che comincia ad assomigliare al caos globale. Il Muro non ci manca. Ma non era questo il mondo che avevamo sognato.

Paolo Valentino
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1999 – L’euroLa fine del viaggio in realtà era l’inizio, ma allora pochi se ne resero conto. Visto vent’anni dopo, l’ingresso dell’Italia nell’euro nel 1999 non sembra essere stato l’errore che alcuni descrivono: non è chiaro che abbia danneggiato l’export o che sia quella scelta a erodere il potere d’acquisto degli italiani. Anche se oggi pochi ci pensano, l’euro ha contribuito a estirpare l’inflazione che falcidiava i redditi dei ceti medi dipendenti e dei pensionati: correva al 10% ancora a metà dei «mitici» anni 80, al 6% all’inizio dei primi anni 90, ma è rimasta in media dell’1,7% negli ultimi vent’anni. Né si può dire che l’euro abbia frenato l’export: il “made in Italy” è salito dal 17% del Pil di inizio di quegli anni 90 oggi avvolti da un’aura di nostalgia, al 23% del ’99, al 29% attuale. Ma se i vent’anni nell’euro per l’Italia restano un anniversario agrodolce, forse è proprio come iniziarono. Lo sforzo di ridurre il deficit dal 7% a meno del 3% del Pil in un solo anno per entrare fu vissuto come una sfida nazionale. Allora nove italiani su dieci erano favorevoli all’euro, mentre in anni recenti il gradimento è crollato a poco più della metà (prima di una recente risalita generata dai timori sul debito pubblico). Vent’anni fa tutto sembrava diverso: era persino possibile chiamare «eurotassa» un balzello per aderire all’unione monetaria e farlo così accettare per gli italiani. Quella mobilitazione di un solo anno ebbe successo, poi però si trasformò in una trappola: compiuta la missione in extremis, noi italiani ci illudemmo che ormai non restasse che coglierne i frutti. Non capimmo che quello sforzo era solo l’avvio della trasformazione necessaria a vivere nell’euro e sui mercati globali. Prevalse l’entusiasmo per l’euro, ma superficiale. Proprio come oggi prevale un cinismo altrettanto superficiale.
Federico Fubini***2009 – L’AquilaEravamo tornati a letto tranquilli. Quella notte a Roma la gente scese in strada, poi risalì e accese la televisione. Dicevano che l’epicentro era dalle parti dell’Aquila, la scossa più forte era arrivata alle 3.32, magnitudo 6.3, ma sembrava che non fosse nulla di grave, «al momento non sono rilevati danni a persone o cose». Ci volle poco per sapere che non era così. Ci sarebbero voluti giorni per contare tutti i morti, che alla fine furono 309. Le tre camerate ai lati della caserma Giudice chiudevano la piazza d’armi dove si svolsero i funerali solenni delle vittime, e impedivano così la vista delle macerie che erano ovunque. Le prime due file davanti al cardinal Bertone erano composte solo da bare bianche. Sono passati appena dieci anni, ma sembra un secolo. In quel 2009 il G8 che doveva svolgersi alla Maddalena si tenne invece nella città abruzzese. Le foto di Silvio Berlusconi e Barack Obama a braccetto sono ormai ricordi sbiaditi. Lo sforzo per aiutare i luoghi colpiti dal disastro c’è stato, questo è innegabile. Finora sono stati stanziati ventuno miliardi di euro, quasi una finanziaria. Tutte le abitazioni private sono state ricostruite con denaro pubblico. La riedificazione delle strutture pubbliche procede più lentamente e si concluderà nel 2027, con 107 edifici ancora in fase di progettazione. Per quanto criticate, le cosiddette «New Town» hanno assolto al loro compito, anche se adesso non ne è chiaro il destino, troppo pesanti per essere demolite, troppo fragili per viverci senza disagi. La ricostruzione del centro storico, completamente distrutto, è in gravissimo ritardo. Forse il decimo anniversario del terremoto dell’Aquila dovrebbe farci soprattutto riflettere su questa nostra eterna propensione a metterci dapprima il cuore, per poi distrarci, passare ad altro. E lasciare la cose a metà, quando va bene.
Marco Imarisio